All'inferno, andata e ritorno
Un viaggio fino all'inferno. Ma ripartire, ieri sera, non è stata una liberazione. Andare via in slalom tra macerie e Vigili del Fuoco, tra volontari della Protezione Civile e terremotati con una busta di plastica in mano, non è stata una liberazione.
C'era il sole, quando siamo arrivati all'Aquila. Un sole caldo e beffardo, amplificato nella luminosità dalla neve sulle montagne che costeggiano la Statale 17. Attraversando L'Aquila si sono ammutolite le nostre radioline, i nostri telefoni. Tutti in silenzio, dentro le nostre macchine, i nostri furgoni, ad osservare le ferite di una città. Il traffico, che poi era un traffico fatto solo di soccorritori e forze di Polizia, sembrava non fare rumore. E in una sequenza lunghissima ci son passati davanti i fotogrammi di una città che si porta sulla faccia una grande, lunga, profonda cicatrice. Con le serrande dei negozi abbassate e le finestre della case un pò aperte e un pò no, esattamente com'erano nella notte in cui la terra ha tremato. A guardare quelle case, attraversando la città, a fissarle per un solo attimo sembra tu ti possa rendere conto di come dentro non ci sia la vita, non ci siano tv accesse, acqua che bolle in pentola, bambini che giocano.
C'era il sole, quando abbiamo imboccato la statale 17. Sapevamo solo di dover andare a Sant'Eusanio e che dovevamo seguire la macchina del nostro amico della Protezione Civile che ci era venuto a prendere all'uscita dell'autostrada. Un sole beffardo che ha illuminato ancor più, uno dopo l'altro, in sequenza, i cartelli già visti in tv: Fossa, Onna, Paganica, San Demetrio. Un sole che veniva giù, si specchiava sulla neve delle montagne e accecava l'anima.
Siamo arrivati a Sant'Eusanio passando per una strada secondaria. Da quella principale non si poteva, in quel momento: i vigili del fuoco stavano stabilizzando una chiesetta, in parte crollata, proprio all'ingresso della tendopoli. Una tendopoli apparentemente come tutte le altre, come le altre che vediamo in tv. L'azzurro Italia delle tende messe a disposizione degli sfollati, il rosso sangue delle tende del 118.
Abbiamo scaricato prima i viveri, nel garage di una abitazione proprio di fronte all'ingresso del campo. Poi coperte e maglioni, in un altro garage poco più su.
E mentre tiravamo giù da macchine e furgoni i pacchi e gli scatoloni, guardavo di come i ragazzi che erano con me buttavano furtivamente un occhio nel campo di fronte. Chè non era la curisosità di vedere come vive uno sfollato. C'era il cuore, in quegli sguardi furtivi perchè timorosi di disturbare anche solo guardando, di chi ha lasciato almeno per un pò il lavoro e lo studio, la fidanzata e la mamma, il bar e gli amici. Di chi ha rinunciato alla pizza con gli amici per metter dentro il serbatoio della macchina venti euro di benzina e andar fin lì. A portar cose che, nella normalità, fino a quando il tetto della nostra casa è sopra la nostra testa, non ci accorgiamo magari neanche di usare e di avere.
E poi, in un'ora imprecisata del pomeriggio, uno dei nostri amici volontari che ci chiama a raccolta attorno alla loro tenda, in fondo al campo. Abbiamo portato delle cose da mangiare anche per loro, che non ne avevano più. E le hanno volute condividere con noi. Chè tra cercare, imballare, caricare, partire, andare, aiutare, proprio non ci eravamo posti il problema cibo.
Loro son rimasti lì, torneranno a casa nei prossimi giorni quando avranno il cambio e la presenza dei volontari sarà comunque assicurata. Noi siamo tornati ieri sera nelle nostre case, alle nostre comodità, ai nostri fornelli, alla nostra energia elettrica, ai nostri letti comodi, ai nostri figli, ai nostri affetti.
Con la stanchezza nelle ossa e l'anima accecata da quel sole beffardo.