UN RITORNO DAL CAMMINO
Arrivò a Villafranca del Bierzo intirizzita dalle tre ore di marcia attraverso i boschi. Entrò in un bar ed ordinò un caffelatte bollente per allontanare dalle ossa l’umidità dell’alba. La sera prima, nell’impulso di spartire i propri averi fra i compagni, si era incautamente sbarazzata del pile, salvo pentirsene amaramente. La sveglia era suonata poco prima delle cinque. Era salita nella camerata dei ragazzi, aveva scosso Lulu sulla spalla e svegliato gli altri. La sala comune del rifugio di Trabadelo non aveva nè fornello né tavoli o sedie: come diceva Lia, sembrava la casa del conte Mascetti, pareva ci fosse tutto e non c’era nulla. Avevano fatto colazione appollaiati sui divani, dividendosi il pane avanzato e le ultime marmellate, poi avevano raccolto gli zaini ed erano usciti in strada: tutto sembrava uguale ad ogni altra volta. Sulla porta invece si erano separati: aveva baciato Gabriele, Vittorio e Monica, Lia l’aveva abbracciata, con Lulu si erano virilmente stretti la mano. Poi i compagni si erano avviati lungo il sentiero, diretti al passo del Cebreiro e la Galizia: Santiago ormai distava solo centonovanta chilometri. Lei aveva imboccato la direzione opposta, verso Villafranca, Bilbao e l’Italia. All’ultimo momento si era girata e aveva avuto appena il tempo di intravederli mentre sparivano nel buio del bosco. Vagò per Villafranca in attesa del pullman, gli ultimi pellegrini si sgranavano lungo la via. Assaporava il venir meno della tensione del rapporto coi compagni, ma i ricordi si infiltravano dovunque, come acqua. La pietra scura della Collegiata di Villafranca le fece tornare in mente la facciata di San Juan de Ortega illuminata dal primo sole dell’alba, undici giorni prima. E loro, sul sagrato deserto, scalzi e sfiniti dall’ascensione notturna ai Montes de Oca, che si dividevano i biscotti. Ripensò all’alimentazione disordinata, compulsiva, culminata nel pulpo gallego divorato fumante il giorno prima alle nove e mezza del mattino. E i datteri, le nocciole, le tortine, le barrette, i gelati. Le albicocche secche divise con Lulu nel querceto sulla strada per Astorga. I dolci alla panna di Sahagun. La padellata di spaghetti aglio, olio e peperoncino preparata da Lia a Ponferrada. Ripensò a Yann il francese, perso di vista tre giorni prima. Si sedette in un parco, posò lo zaino, aprì un libro, lo richiuse. Le immagini continuavano ad apparirle a casaccio, Lulu che spigolava sulla strada per Bercianos, Monica che comprava il latte per i gattini a Trabadelo. Il coro delle rane nello stagno al Burgo Ranero. Lo scoiattolo intravisto nei boschi di Pereje, i leprotti nel parco di Pamplona, le cicogne nel cielo sopra Carrion, la cicogna morta sul marciapiede alla periferia di Burgos: enorme, le ali come accartocciate. Era quasi mezzogiorno, a Villafranca rimaneva solo lei, gli altri pellegrini erano ormai lontani. Chissà se avevano già varcato il Cebreiro. Lei e Monica sul campanile diroccato a Santa Catalina a fotografare le cicogne. Lulu al Burgo Ranero che sgorgava la sorgente otturata, con la sola imposizione delle mani. Ripose nello zaino le scarpe da trekking e indossò i sandali. Si trovò sul pullman quasi senza accorgersene. Dall’autostrada, il Bierzo sembrava più piatto, ma le vigne che vedeva erano le medesime lungo le quali avevano camminato appena il giorno prima, gli stessi i campi verdi e gli appezzamenti invasi dalle stoppie. Non riusciva ad accettarlo: diciotto giorni di cammino, cinquecentoquaranta chilometri a piedi. Ed era finita. Un cartello preannunciò l’arrivo a Ponferrada. Le sembrava di trovarsi dentro un film che si riavvolgeva con rapidità vertiginosa. In quel momento ricevette un sms da Monica: erano arrivati al Cebreiro e avevano ritrovato Yann. Si sentì ancora più lontana. Cercò di distrarsi, riprese a guardare fuori dal finestrino. Avrebbe voluto rileggere le pagine scritte nei giorni precedenti ma temeva di non ritrovare nulla. Appena distoglieva lo sguardo le sembrava di non rammentare niente di ciò che aveva visto solo un giorno prima. La meseta sembrava appena lievemente ondulata: le aspre pieghe delle colline celate da una coltre di grano e girasoli. Cercò le case di Hontanas, sprofondate nel mare di grano. Passato e presente si confondevano, si rivide piangere a Hontanas nella penombra del bar, l’indomani della discussione con Lulu. I paesi erano macchie scure nel deserto giallo e verde. Villanueva de Campos, Buenavente, La Union de Campos. Case di terra e paglia rappezzate con cemento e mattoni, come a Bercianos. Ripensò a quella sera nel rifugio di Bercianos, gli italiani seduti in cerchio che cantavano “bella ciao”, gli altri pellegrini che battevano a tempo le mani. Poi tutti insieme fuori a guardare il tramonto, intonando “volare”, di fronte all’orizzonte che si arrossava. Villacid de Campos. Quanto era stata lunga la traversata della Tierra de Campos, squallida e brulla. Ripensò ai sentieri, agli sterrati, all’asfalto, ai prati, alle pietraie. Agli albergues. E loro sei, sempre pronti nello stesso momento, gli zaini chiusi in un attimo, le colazioni al volo. E i riti che scandivano il riposo dopo la marcia: doccia, spesa, bucato. Lavare, stendere, rubacchiare mollette, scroccare sapone. La biancheria subito asciutta nei giorni roventi della Rioja, quella sempre umida degli ultimi tempi in Galizia. Lulu e Jordi il catalano a Bercianos, che cercavano di stendere i panni nel cortile battuto dal vento mentre lei e Vittorio lavavano i piatti in cucina, aiutati dal ciccione spagnolo che sbirciava lubrico la sua maglietta bagnata. Ripensò all’acqua, alla sete, alle fonti prese d’assalto, alla sensazione dell’acqua gelata sul viso accaldato. Ai gavettoni nei giardini di Irache, ubriachi del vino spillato gratuitamente dalla fuente del vino. Oltrepassarono il canale di Castiglia all’altezza di Fromista. Pensò a Lia, che a Fromista si era aggregata, riequilibrando i rapporti e smorzato le tensioni. Lia, col suo passo veloce, che sapeva cucinare un pasto succulento con niente. Ripensò a quello che era accaduto prima del suo arrivo, la febbre di Lulu a Santo Domingo, il collasso di Vittorio a Ventosa, svenuto sulla fetta di anguria. La lite fra Lulu e Gabriele all’uscita da Sahagun. Gabriele, che camminava col cappello calcato sugli occhi, il suo passo spigoloso e parossistico da maratoneta.La campagna sembrava ancora più povera, eppure lungo gli argini dei canali si vedevano ondeggiare alte le canne. Erano già le cinque e ancora non avevano raggiunto Burgos. Aveva le gambe intorpidite e si sfilò i sandali. Si rivide tutte le volte che era entrata scalza nei bar. Quella volta che aveva rincorso Yann a piedi nudi sullo sterrato per Calzadilla, mentre Lulu e Vittorio dormivano sotto un cespuglio ai bordi della strada. Il candido, sprovveduto, ex seminarista Yann, così entusiasta dei suoi amici italiani. La sua enorme cotta per la smaliziata, solare, amichevole, provocante Monica. Monica, che si spogliava nella stanzetta a Bercianos, intimandogli di tenere chiusi gli occhi; e lui, obbediente, che si addormentava ad occhi serrati, stringendo il Rosario. Il pullman entrò nell’autostazione di Burgos, fece una curva e ripartì. La tortilla nel bar di operai alla periferia di Burgos. Il formaggio che colava dalla tortilla bollente a Belorado. La tortilla alla Virgen del Camino con la birra nei boccali appannati appena estratti dal freezer. Il boccale da un litro ad Obanos, bevuto in piedi al bancone, di corsa. La sangria davanti alla cattedrale di Burgos per festeggiare i 45 km percorsi in un giorno. Le conversazioni interminabili, gli scherzi, le barzellette, le confidenze, il farsi e disfarsi dei gruppi, dei roccoli, le discussioni, il passare avanti, il restare indietro, lo slittare da un gruppo all’altro, mentre la strada si snodava sotto i loro piedi. La collettiva ossessione per le distanze, i calcoli astrusi, i chilometri, contati e ricontati, le tappe, i piani, i paesi; nomi che diventavano luoghi per un istante e passavano via come foglie sull’acqua. E Santiago, innominabile, irraggiungibile, mitica. La strada si insinuò in una gola rocciosa poi la terra si riaprì su villaggi più lindi, più graziosi, ci si avvicinava a Vitoria. Le futili discussioni con Lulu, la terribile lite a Burgos. Una cosa così sciocca: Lei, indecisa sulla direzione per il ristorante, lui che le rimproverava la titubanza, lei che lo rimbeccava blandamente. E lui che esplodeva, e urlava, urlava, urlava, per la strada, davanti a tutti, e lei agghiacciata che non riusciva a rispondere, nemmeno a reagire, incapace persino di realizzare che qualcuno potesse veramente mancarle di rispetto a quel modo. Ero stanco, le avrebbe detto, molto tempo dopo. E lei, l’indomani, nel buio, lo zaino già pronto, indecisa se andarsene e lasciarli soli. Incerta se il coraggio stesse nell’andare o nel restare.Le partenze sotto la luna, il bagliore delle torce, l’odore della notte, il rumore dei passi nel silenzio, lo stomaco stretto in un groppo e le gambe molli. Il sole che si alzava sui campi mentre lasciavano Santo Domingo. La volta stellata all’uscita del bosco sopra i Montes de Oca. I gesti comuni, il continuo aprire e chiudere gli zaini, prendere, riporre, infilare. Le borracce, estratte, svitate, richiuse, svuotate, riempite. Le cartine, le mappe, le guide. Il rombo lontano delle pale eoliche. Lulu, che medicava i piedi a Vittorio, lei che gli reggeva la torcia nell’ombra fra i letti a castello mentre ricuciva le vesciche a Gabriele. Il suo zaino senza fondo, le bustine dei medicinali. Le sue lune, i suoi malumori mattutini. Lui che si isolava con la musica per ore. Dopo Vitoria le colline si fecero più imponenti e boscose, il cielo cupo. La Guardia Civil li fermò e perquisì il bagagliaio: questo, più di ogni altra cosa le diede la misura del suo essere ormai molto lontana dal Cammino. Meno di mezz’ora dopo entrò finalmente a Bilbao. Reperì velocemente un albergo, erano quasi le dieci di sera, a quell’ora i suoi ex compagni dovevano essere già a letto. Ripensò alla paella insipida e stracotta che gli avevano propinato a Santo Domingo, alla cena nel ristorante di lusso di Astorga. Rivide il pentolone di risotto ai frutti di mare divorato in cerchio, i piatti sulle ginocchia, nella bianca penombra di San Bol, il rifugio hippy in mezzo alla meseta. La stanchezza si era mutata in torpore, alla mente le affioravano brandelli di canzoni. Il canto era stata davvero la cifra del loro cammino. Il repertorio inesauribile di Lulu e Vittorio, capaci di andare avanti per ore. L’”uselin della comare” sul crinale della collina alla volta di Villafranca, Yann che rideva senza comprendere. Il “pescatore” a squarciagola contro il muro dell’ermita prima di Viana, coi ciclisti spagnoli fermi ad applaudire. Lei e Lia che cantavano “la locomotiva” arrancando verso Pereje. La notte di San Giacomo a Mansilla, quando, spalla a spalla avevano cantato “Morti di Reggio Emilia” nel cortile gremito di pellegrini. Le strazianti arie siciliane di Lia all’ingresso di Bercianos. Lulu a Foncebadon, che intonava la canzone della huelga, la sua voce nel buio sul terrazzo percosso dal vento. Il coro dell’“Internazionale” lanciato sul rettilineo alla volta del Burgo Ranero e lei che si guardava attorno, cercando un’immagine cui aggrapparsi, per fermare, fra tutti, almeno quell’istante. Si mise a letto e le parve di sentire il profumo del the alla menta di Lia, ricordò le erbe che raccoglieva lungo la strada e il profumo lieve del sambuco. Gli alberi di prugne sulla strada polverosa verso Logrono. Le immagini si fecero confuse. Rivide la veglia fra le montagne a Foncebadon, le parve di sentire le voci delle ragazze austriache che cantavano il Padre Nostro nella cappella, alla luce delle candele, loro che ascoltavano avvolti nelle coperte mentre fuori infuriava il temporale. Il concerto di musica sacra nella chiesa di Fromista, fra i contadini vestiti per l’occasione. Il canto dolcissimo della ragazza irlandese nella chiesa di Villamajor e Lulu in piedi, ieratico, che inseriva le monete per l’illuminazione. Lulu che raccoglieva l’uccellino morente sulla scalinata della chiesa a Villafranca, Lulu che le afferrava le gambe a Foncebadon per aiutarla a scendere dal letto a castello, che riconosceva i suoi calzini a Hontanas, Lulu che la guardava di sottecchi prima di intonare la canzone delle mondine. Lulu che spalmava ostentatamente la crema sulle gambe di Monica a San Bol. Poche altre cose tornavano alla mente, frammenti indistinti, come le pietre sconnesse del ponte romano di Ciriaqui, nella faticosa prima giornata. Solo in quel momento, mentre indugiava sulla soglia del sonno, si permise di ripensare alla sera prima, a Trabadelo, quando lei e Lulu si erano avviati per andare a cena e nessuno dei due parlava; non un silenzio teso, tuttavia, ma pacato, amichevole. E cautamente avevano preso a parlare della lite di Burgos. Era tutto così lontano per lei, troppi giorni, troppa strada trascorsa. Si sentiva diversa, più sicura, più forte. Così si era parlato, di niente. Al ristorante erano seduti di fronte, e lei aveva pensato che non le dispiaceva partire, perché lui le aveva sorriso ed avevano parlato da amici, e da quel momento era stato come se fra loro le cose si fossero finalmente aggiustate. Come se quella scheggia fosse stata finalmente rimossa e il cammino percorso potesse finalmente rivelarsi in tutta la sua bellezza. Erano rientrati al rifugio cantando a squarciagola “maledetta primavera”.Ed ora era lì in quell’albergo di Bilbao, che cercava di salvare i ricordi dal naufragio, di soffocare il dolore. E la Galizia, il cammino, ormai remoti, inaccessibili. Si addormentò.