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Cosa faremo dei nostri passi

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gianfree

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Cosa faremo dei nostri passi

“..ma adesso cosa resterà dei nostri passi?”

Avrei voluto alzare la testa appoggiata sulle impronte di questo santo Portico della Gloria, rischiando di perdermi nei suoi occhi già affollati di ricordi, per provare a dargli un paio di ali cosi da volar via da questa domanda a cui non riesco a dare risposta.

Avrei dovuto dire qualcosa, inginocchiato in questa cattedrale di Santiago, che vede volare sulle nostre teste il botafumeiro, che dispensa incenso su chi ha una spina in gola per aver finito il proprio andare. Si, avrei dovuto, anche perché proprio Clara, peregrina arrivata da Rosario, ha aperto questo mio Cammino Primitivo in un'altra cattedrale, quella di Oviedo, con un altro quesito!

Qualche settimana fa, quando ero intento a promettere una preghiera a pochi passi da un piccolo telo di lino: dicono sia un Sudario, quello di Cristo, arrivato nelle Asturie assai prima del medioevo, quasi un secolo prima che si aprisse questa infinita traccia di polvere battezzata Cammino di Santiago.

“Lo sai- mi chiese a Oviedo- perché il Sudario con cui venne coperto il volto di Gesù, dopo la Risurrezione non era confusamente a terra come le altre bende, ma, come scrive Giovanni nel Vangelo, era stato piegato e riposto da Cristo stesso in un luogo a parte?”

Anche allora, non avevo risposte da dare alla peregrina che pare avesse attraversato l'oceano solo per avanzarmi quesiti.

“Secondo l'antica tradizione ebraica- spiegò Clara, stringendosi gli scarponi che avevano voglia di andare- il servo durante il pasto aspettava in disparte che il proprio signore finisse di pranzare prima di avvicinarsi per sistemare la tavola. Il vedere il proprio padrone alzarsi e appallottolare disordinatamente il tovagliolo era il segnale che voleva dire ..'ho finito puoi entrare'. Al contrario, se il padrone una volta alzatosi, avesse piegato ordinatamente il tovagliolo sistemandolo su di un lato del tavolo, avrebbe significato: ‘tornerò, non ho finito!”.

Aveva gli occhi pieni di voglia di evadere da un mondo che ingabbia, così, senza darmi la soddisfazione di vederla andare via, portandosi dietro uno zaino mezzo pieno di orizzonti mi lasciò in silenzio proprio davanti a quel panno di lino, Speranza di tutte le speranze.

Un piccolo telo che è un po' come quelle mattine silenziose del peregrino, capaci di sciogliere la stanchezza dell'andare sotto gli alberi di questa antica traccia di polvere e fango, scritta sulla catena cantabrica. Montagne, che per prime hanno visto un re peregrino, Alfonso II, cercare la tomba dell'apostolo Giacomo, illuminata, in una notte oramai persa nel tempo, da una stella accecante, tanto da togliere dal torpore l'eremita Pelajio.

Tutto l'andare, tutto questo infinito peregrinare verso il campo di stelle incominciò da Oviedo, dal Sudario a cui il re si raccomandò.

“...chi va a Santiago senza passare dal Salvador, onora il Servo e non il Signore”.

Quattro anni fa i passi ancora non consumati si accorsero di essere in cammino solo ai piedi dei Pirenei francesi, in una cittadina chiamata Saint Jean Pied de Port, che prima del vociare, dei miraggi di viandanti alla ricerca di indulgenze, conobbe la furia distruttiva di Riccardo cuor di leone che, un po' per sfizio la rase al suolo andando alle crociate. Non sapevo del dire degli antichi viandanti che invitavano ad andare dal Signore, prima che dall’apostolo ed è per questo che ora sono tornato.

Lasciata la Cattedrale di Oviedo, l'andare diventa bucolico. I campanacci delle mandrie al pascolo danno note al silenzioso piovere che disseta il verde inteso queste Asturie. Tanto intenso da far sembrare le nostre anime ingiallite come i cuscini di certi albergue, che oramai domandano a fatica la Credenziale ai peregrini.

Nuvole incastrate al cielo bagnano questi passi, che amano vagabondare sui sentieri, a volte acciottolati a volte cosi ripidi da lasciare indietro i sogni urbani, che qui si scoprono col fiatone. Per non essere ritrovati dal mattino del monastero di Cornellana, qualche peregrino si rigira nel sacco a pelo mentre qualcun’ altro schiaccia la testa nel cuscino per non sentire quei peregrini, che molto tempo prima dell’alba, cominciano a rovistare nei propri zaini alla ricerca della loro provvisorietà. Clara richiude frettolosamente le imposte di questo antico monastero, convinta che il tempo gli remi contro perché aldilà del vetro appannato la pioggia si mescola al fango.

Quando riprendo a seguire la flecha amarilla intravedo la luna, ma qui, nelle Asturie l’indaco del cielo è solo una illusione e lo scendere della pioggia riprende a cadenzare i passi. Mandrie ad ogni passaggio di muchilla alzano la testa dai pascoli per scrutare biascicando chi ha lasciato di là la propria vita per seguire una gialla conchiglia, con la speranza di trovare le verità della ragione.

In questo Primitivo, se c'è una cosa vera è la Ruta, l'antica via alta che riscrive i profili della sierra Fanfaraon e della sierra del Palo. La Ruta de los Hospitales è un po' un rito pagano, che serve a raccontare agli altri chi siamo. E’ un po' come una medaglia da esibire, è un po' come dire “io c’ero”! Ed è per questo che chiunque si porti nella via Primitiva legge ogni istante il cielo per capire se poi la potrà raccontare.

Sarà per il mio essere pagano, sarà per il chorizo servitomi ieri sera, sarà per i “roncadores”, ma già prima del sole sono arrivato sul “Mirador de Leticia”.

Una alchimia tra i castagni voluta da un poeta minatore, per far respirare al peregrino le vallate sottostanti così da potercisi contemplare. Il bosco di Obona è una rete dove si impigliano le nostre sensazioni, è uno specchio dove rincorrere o sciogliere i nostri trucchi. Più in là, invece, l’albergue di Santa Maria de Borres, che non ha certo l’aria di un campo rifiorito, esalta lo spirito del peregrino.

I riflessi bianchi della nebbia delle vallate, rimbalzando sulle pozzanghere, accecano gli occhi che tentano di cercare le orme di Alfonso II,salito da re sul dorso di queste montagne che lo hanno reso immortale. In fondo anche noi ubriachi di pioggia, con l’elastico che non riesce più a tener su le mutande appesantite dalla tempesta, buttandoci su questa Ruta, volando sull’Alto de los Hospital, cerchiamo l'infinito.

Quando ci ritroviamo in questo scintillio di nuvole, quando in questo mescolarsi di acqua ghiacciata e sudore mi aspetto di vedere Caronte, ecco cavalli liberi senza fare rumore e senza paura farcisi incontro. Ogni passo prima spezzato dal fango diventa un altare verso il cielo. E dopo la fatica inebriante, nella notte di Berducedo ogni sacco a pelo allungato sul letto diventa un grembo materno.

Sui cespugli puntellati di colori, grossi ragni stendono le loro tele un po' come le donne di quassù che, calzando i loro “ madrenas”, cercano un raggio di sole per asciugare i panni così come cercherebbero un cuore dove approdare. Di passo in passo, peregrini riempiono gli “horreos” -oramai lasciati vuoti- delle loro fragilità, dei loro abituali vestiti per evadere dalle loro vita pensata lontano da qua.

Quando dopo giorni le Asturie emergono dal mare di nebbia, le tinte accese dei cespugli appaiono come idee di Monet mentre le creste delle montagne ora libere sembrano calate dal cielo. Quando, invece, i tetti si anneriscono di ardesia, i vecchi ciondolando accompagnano le mandrie nelle stalle prima di andare a riposare la stanchezza e quando un’altalena appoggiata ad un melo aspetta con ansia un bambino per poter volare, sono in Galizia. In questa pista ora non più fangosa, ma di polvere ci si inginocchia in queste chiese di pietra rugosa, che si incontrano in mezzo a piantagioni di cavoli. Ognuna sul sagrato ha il suo piccolo cimitero. Una vecchia a lutto mette fiori sulla lapide mentre un gatto crogiolandosi al sole se ne frega di lei e di me. Sotto un pagliaio un altro anziano curvo inforca gli occhiali per vedere se con lo zaino porto via anche qualche suo ricordo.

Basterebbe farsi trasportare da questa luce trasparente della Galizia per arrivare in fretta dall'apostolo. Basterebbe tenere il passo della mia ombra che da Melide si allunga per lasciare in fretta il Cammino, ora “francese”, pieno di peregrine con pochette al posto dello zaino e peregrini che, passeggiano appoggiandosi a grossi ombrelli che lasciano solo per specchiarsi nei selfie.

Ma per tutti c’è un tempo per arrivare. Ed è un momento sognato dove sicuramente ci si tende la mano. E sicuramente sarà un tempo benedetto dal Cielo.. Santiago è un’antica striscia di terra dove a volte si è peregrini senza neppure pregare. Dove si è innamorati dell’andare e dove basta una freccia gialla per farsi guidare. Santiago è come smarrirsi in un sogno forse nemmeno spiegato bene, che però bisogna sognare.

Lo sapevano bene nel medioevo quanti, affamati di perdono, si mettevano in cammino per vivere in compagnia del loro dolore, del loro peccato per abbracciare se stessi sulla tomba dell'apostolo. Per giorni restavano nella cattedrale. Prima per meditare sul cammino, poi per implorare perdono, poi, sulla tomba di Giacomo per pregare per i loro persecutori. Ed infine, solo dopo giorni di preghiera, salivano le scale per abbracciare la statua lignea dell'apostolo: quell'abbraccio voleva dire che da quel momento in poi avrebbero abbracciato ogni croce posta sul loro cammino, sulla loro vita senza lamentarsi cosi come avevano fatto il Cammino senza pretendere mai nulla.

Forse anche per questo Finisterre, dove lo spogliarsi dei vecchi panni, bruciarli era testimonianza di conversione, di cambiamento.

No Clara, non so cosa ne faremo dei nostri passi! So solo che senza zaino sulle spalle, mi sento più solo!
 
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