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Diario Il mio Camino de la Costa (cronache e pensieri di ... gesso)

Raùl

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Arezzo-Parigi-Bayonne 17/20 Aprile.

Avvicinamento lento.

In treno a Parigi via Milano,che il Cammino inizia quando parti da casa, e passare in un ora e mezzo dal bucolico accento del Casentino all’altezzosa lingua dei cugini d’oltralpe,trovo che sia un cambiamento di idioma eccessivo.

Almeno per i miei quattro neuroni,che stanno diventando un po’ più lenti a causa dei capelli bianchi.

Quindi mi piglio tutto il tempo, anzi, mi fermo a Parigi a fare il turista per un giorno intero, che non si diventa pellegrini in poche ore: per entrare “nel personaggio” occorre tempo ed il tempo è la moneta più preziosa che possa spendere il viandante.

Cimitero di Montparnasse a spasso tra le tombe, perché a visitare la Tour Eiffel e Notre Dame, ci sono già stato da giovane.

Parigi non è molto cambiata negli ultimi vent’anni: l’unica grande differenza è il modo di camminare dei parigini.

Me li ricordavo tutti iperattivi, indaffarati, altezzosi; camminavano veloci e con la schiena dritta fissando un punto ideale di fronte al proprio orizzonte … adesso vanno adagio,con questa postura china e un po’ indolente, con lo sguardo basso,distratti …

astratti …

a tratti …

Attratti.

Dai propri smartphone, ovviamente!

Cimitero di Montparnasse, dicevo … sono qui per Jim Morrison, ma il custode giura che ho (anche io come quasi tutti gli sconvolti che vengono a far festa sulla sua tomba) un’informazione sbagliata: i resti di Jim sono a Parigi, è vero, ma in un altro cimitero!

“Eddai, che lo dici perché pensi che vada a rollare una canna con lui o chissà che cosa e quindi vuoi depistarmi!”

Ride.

Ridiamo.

Mentre mi porge una mappa con la pianta del camposanto ed i numeri a contraddistinguere le tombe “importanti”,e siccome non vedo quella di Jim, tento ancora di “stanarlo”:

“Non mi dici la verità e vuoi depistarmi,ne sono sicuro …”

(mi ha già voltato le spalle ed ha riguadagnato il posto in guardiola)

“… comunque non sono venuto a far festini: il cimitero è un luogo …”

(no, non mi ascolta!)

“… un luogo serio!”

Lo credevo davvero prima di iniziare il mio zigzagare curioso tra questi piccoli grandi monumenti al dolore,seguendo sommariamente la mappa:

la tomba di Serge Gainsbourg spettinata ,disordinata e disorientata come lui: più che una tomba, pare un letto sfatto dove si è (anche!) dormito molto!

Quella di Baudelaire (che poi è solo il cenotafio) con biglietti a lui dedicati da aspiranti suicidi e lucidi folli scrittori che si credono albatros.

Un piccolo cane bassotto di pietra veglia su quella linda ed immacolata di Philippe Noiret e,no: non può essere un caso!

Il grande Gatto “stile Gaudì” (non ho capito bene se sia proprio opera sua) con i colori “patchwork” è un vero pugno nell’occhio ma allieta il bambino che riposa alla sua ombra.

Le lapidi gemelle di Simone de Beauvior e di Jean Paul Sartre coperte di baci al rossetto e vai a sapere perchè.
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Illustri sconosciuti la cui ultima dimora è probabilmente ben più ridondante delle loro gesta terrene: mi veniva in mente “A’ Livella” del Principe De Curtis,ma sicuramente costoro,in vita, non l’avevano mai letta!

Il silenzio rotto da un gruppo di operai che facevano manutenzione ad un malmesso marciapiede, io che ronzavo attorno ad un gruppo di statue di angeli affranti alla ricerca di una tomba che non figurava sulla mappa:

“Dov’è Jim Morrison?”

Dico senza tanti preamboli a quel gruppetto di uomini indaffarati. La voce di uno di essi sovrasta il rumore stridulo di una sega circolare con la quale un suo collega si stava apprestando a tagliare una barra di marmo:

“No, non qui: devi andare al cimitero di … (segue nome impronunciabile)!”

Amici e complici del custode, o più probabilmente la cartina di tornasole che attesta la mia crassa ignoranza!

Faccio un cenno di saluto e mi arrendo all’evidenza, che è già ora di andare in stazione e prendere il treno per Bayonne,con tanti omaggi alla Memoria del Re Lucertola.

Giornata di freddo sole che scendendo verso sud inizia invece a scaldare sul serio.

La mia musica negli auricolari.

Lo zaino sulla cappelliera a ricordarmi chi sono.

Il treno che taglia la campagna ed inanella le grandi città che si dipanano verso sud-ovest: Orleans … Bordeaux … mi viene in mente che avrei potuto far tutto a piedi, ma ormai è tardi … magari la prossima volta.

Ogni tanto si sente qualche sporadico passeggero parlare spagnolo ma ancora “comanda” il francese e lo farà ancora per qualche giorno: ecco cos’è un è un avvicinamento lento!

La serata tiepida di Bayonne mi abbraccia non appena scendo dal predellino: due foto sul ponte della Nive,il fiume che taglia in due la bella cittadina, una fame improvvisa che placherò tra non molto in un allegro ristorante gestito da giovani entusiasti ed appassionati per il proprio lavoro, la partita di Champions League con quella squadra di spocchiosi che speriamo perdano male!

(…. e niente: vincono sempre!)

L’albergue di Cathy e suo marito Gregory, è curatissimo: due letti a castello in un ambiente familiare,ridente e vagamente gipsy. Cathy mi accoglie con un abbraccio e sento che si, adesso sono in Cammino.

C’è un’altra ospite: una ragazza tedesca che domattina partirà in treno per Saint Jean: io inizierò a camminare lungo la costa per non so dove, perché non ho ben chiaro il percorso che da Bayonne mi dovrà portare ad Irun.

“A che ora apre domattina la cattedrale? Dovrei prendere una credenziale per me ed un’altra per un amico che me ne ha fatto richiesta”.

Cathy ride alla mia domanda:

“A che ora vuoi partire domani?”

“Mah … non ho fretta … non saprei …”

“Sono io che apro la cattedrale e sono io che consegno le credenziali! A che ora vuoi partire, domani?”

Devo aver fatto una faccia sorpresa perché quella di Cathy appare ai miei occhi molto divertita.

“Beh… sono nelle tue mani!”

Le dico accennando un impercettibile inchino.

Padrona di casa dal cuore grande: non solo mi metterà il primo sello sulla credenziale che mi consegnerà, ma disegnerà sullo spazio vicino al timbro un bel paesaggio montano ed un pellegrino che lo percorre: la scritta “Buon Cammino, Raùl” ed una pioggia di stelline a completare la piccola opera.

Mi congederà con un abbraccio, così come mi ha accolto, ed un rosario puntiglioso di indicazioni e raccomandazioni: come ultima cosa mi dice che telefonerà al camping di Guethary dove il proprietario accoglie volentieri i pellegrini.

“ Vai a dormire lì, ti troverai bene!”

Dice che dovrebbero essere una ventina di chilometri: io in mano non ho mappe ne’ guide figurarsi il gippiesse, ma il percorso seppur poco segnalato è molto facile ed intuitivo.

Già so come andrà a finire ma scaccio il pensiero dalla mente.

L’avvicinamento lento sta lasciando il posto alla prima tappa di questo nuovo Viaggio: esco dalla cattedrale e tiro un profondo respiro, prima di dare il primo di una serie innumerevole di passi.
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Sto rimettendo un po' a posto (ormai sono tornato da un mese) il mosaico che ho in testa e vorrei condividere anche con voi, amici, questo mio Viaggio.
(Sono una trentina di tappe, pertanto quando crederete che stia esagerando con le mie elucubrazioni, datemi uno "stop") ;-)
Raul
 
20 Aprile, Bayonne-Biarritz. (12 Km)

“Quella sporca dozzina”: e non mi riferisco al vecchio film di guerra con Lee Marvin, ma piuttosto a quei dodici chilometri (scarsi!) che dividono Bayonne da Biarritz.

Per coprire questa breve distanza, ne avrò percorsi almeno venticinque camminando per più di sei ore: ma andiamo per ordine.

Esco dalla cattedrale seguendo diligentemente le indicazioni di Cathy, sia quelle impartitemi a voce che quelle stampate sul foglio A4 che mi sto rigirando tra le mani: arrivare al fiume e seguirlo lasciandoselo a sinistra è stato facile (“Non devi mai attraversare la Nive!”, si era raccomandata più volte!).

“Passerai davanti alla scuola di canottaggio”, “costeggerai il parco”, “la pista d’asfalto diverrà di cemento”, e così via: ad ogni punto significativo, mi risuonava in mente una raccomandazione e mi congratulavo mentalmente con me stesso per non essermi ancora perso: avrò percorso ben due chilometri con discreto successo!

Ciclisti, cani a passeggio col loro bipede ed infaticabili joggers, erano la mia compagnia, la Nive sempre a sinistra.

Frecce gialle? Manco a parlarne: esistono dei segnalini gialli e blu discretamente seminascosti perché l’autorità comunale non gradisce “pecette chiassose” ne’ tanto meno colpi di vernice gialla pittati alla bell’e meglio sui muri delle case; adesivi bicolore talmente piccoli ed insignificanti che, se non me ne avesse parlato Cathy, non li avrei ne’ notati ne’ tantomeno associati al Cammino.

Lascio la pista di cemento per affrontare,come da fotocopia, una ripida e tortuosa salita ed è a questo punto che la giornata si guasta definitivamente: avrò camminato si e no un’ora e già sono in difficoltà!

La strada che dovrei percorrere una volta arrivato in cima, è chiusa perché le stanno rifacendo l’asfalto, pertanto mi tocca ‘sta gimkana tra i vialetti alberati e per me privi di senso, e le casette basse di un quartiere residenziale elegantuccio e decisamente borghese.

Sai quando da bambini giocavamo a mosca cieca? Finivi bendato e per farti perdere ancor più l’orientamento, i compagnucci gran bastardi ti facevano girare e rigirare su te stesso fino quasi a vomitare, così da essere sicuri che tu non avessi punti di riferimento.

Ecco, stavo giocando a mosca cieca e dopo un po’ avevo completamente perduto ogni punto cardinale: non dico che mi venisse da vomitare, ma insomma …!

Adesso a mente fredda è facile: ho ripercorso mille volte quelle viuzze dentro alla mia mente e so esattamente dove ho “cannato”, ma al momento ero irrimediabilmente “in bambola”, camminando con il sole in faccia (stai andando verso est, c@zzo, non te ne accorgi? Dobbiamo andare dalla parte opposta!), scorgendo di fronte a me, ad una certa distanza le guglie della cattedrale (oh, sveglia!!! Stiamo tornando al punto di partenza!).

Giocavo la mia partita come al biliardino: ero sulla palla ma frullavo la stecca dei mediani alla rinfusa nella speranza di prenderla, e chi ha giocato a calciobalilla, sa che questo non si deve mai fare!

Stavo camminando perché sapevo che dovevo camminare e non perché sapessi dove stavo andando e la cosa è ben diversa!

Completamente privo dei più elementari rudimenti di navigazione, e non diciamo a nessuno come mi guadagnassi il pane prima di fare il pellegrino a tempo pieno: che resti un segreto fra noi!

Leggo e rileggo la fotocopia ma non c’è più nessun riferimento che mi possa aiutare, i segnalini gialli e blu sono spariti per sempre, passa una mamma con i bambini da portare a scuola:

“Mi scusi,signora … Rue Zo, per favore?”

E lei gentilmente:

“Henry Zo … o … Achille, Zo?”

Achille?! Chi c@zzo poteva avere la disgrazia di chiamarsi …“Achille Zo”?

“Grazie, non importa. Buona giornata”.

L’unica cosa che mi viene in mente è voltare le spalle alle guglie della cattedrale e dirigermi nella parte opposta: sicuramente con questo strattagemma mi allontanerò da Bayonne ed in questo momento già mi pare tanta roba!

Credo che fosse una strada statale, a quattro corsie e molto, molto trafficata; la percorro sotto al sole che comincia a scaldare per davvero e poiché la mia mente è presa dal ritrovare la direzione giusta, mi scordo di togliermi il pile: sono in una pozza di sudore, ma se mi alleggerisco adesso, rischio la bronchite.

Pellegrino sperduto in una sauna gigantesca dove passano le macchine a gran velocità,mi ritrovo a vagare in un enorme parcheggio di un altrettanto enorme centro commerciale come se ne trovano ormai dappertutto: un vagabondo con uno zaino da dieci chili che si aggira nel piazzale di fronte a Carrefour, cercando di evitare auto, furgoni e carrelli della spesa.

Mi siedo su una fioriera dove quattro pianticelle stentate reclamano acqua ed accendo una sigaretta per cercare di dare un senso ad un itinerario seriamente compromesso.

Si fa difficile.

Difficile districarsi.

Scegliere sul da farsi.

Alzarsi,

incamminarsi.

Dove tutti sembrano muoversi con una familiarità che comincia a darmi sui nervi, solo io sembro giocare ancora a mosca cieca e non posso certo fumarmi tutto il pacchetto in attesa dell’illuminazione celeste!

L’unica cosa da fare, è puntare dritto verso il mare (non importa dove lo intercetterò, mi basta intercettarlo) e da lì, lasciandoselo sulla destra, riannodare il filo della tappa e proseguire verso ovest.

Si tratta in pratica di continuare a frullare alla rinfusa la stecca dei mediani,sperando di colpire la pallina.

“Mi scusi … per il mare qual è la direzione?”

Solo uno scemo può cercare il mare con uno zaino monumentale sulla schiena: la signora non sa se rispondermi o chiamare la vigilanza:

Mastica piuttosto scortesemente un “Dritto di là”, la mano che indica una vaga direzione con le chiavi dell’auto che le tintinnano fra le dita: ovviamente sono di una Citroen.

“Grazie!”

Rispondo senza sorriderle e gettando uno sguardo poco convinto verso “di là”.

Attraverserò un bosco (si può chiamare bosco un verde fitto, incolto pieno di siringhe e condom usati, incastonato tra due assordanti strade ad alto scorrimento ai bordi della città?) fino ad intercettare un torrentello, che seguo nella speranza che mi porti al mare: ormai questo è diventato il chiodo fisso.

Mare!

Sto continuando ad andare “di là” e le chiavi della Citroen mi tintinnano, ogni volta che ci penso, davanti agli occhi.

Ed infine eccola la mia meta: ci avrò messo tre ore ma fortunatamente l’ho intercettato,il mare! Tra capannoni, un porto merci ed altre utili e necessarie brutture … ed io che mi immaginavo chissà quale idilliaco panorama!

Adesso si tratta di camminare tenendolo sempre a destra, qualsiasi cosa accada, ed ovviamente attraversare la città di Anglet in tutta la sua estensione.

Avessi potuto abbracciare il mare, credo che lo avrei fatto!

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La fotocopia di Cathy, Anglet non la riporta nemmeno e mi domando quale cervellotico giro abbia partorito la mia mente: mi fermo in una bettola a prendere un caffè, mangiare qualcosa e farmi riempire ( s’il vous plait), la borraccia ormai vuota da un pezzo.

Mando un messaggio a Cathy per avvertirla che non potrò arrivare a Guethary e quindi avvertisse, perfavore, il camping di non aspettarmi; faccio una pallina col foglio delle sue indicazioni, e la tiro nel cestino “stile Shaquille O’Neal” quando andava a canestro!

(non sono bravo come lui, quindi la raccolgo da terra e la deposito nel cestino “stile mio nonno in carrozzina quando andava ai giardinetti”!)

Per la prima volta nella mia vita pellegrina vorrei avere uno di quei devices elettronici da occhialuto nerd, che pensano al posto tuo, ti dicono la strada e ti segnalano qualsiasi cosa interessante lungo il tuo percorso:

“Hey, guarda la biondina dall’altro lato del marciapiede! (Bip)”

(Il GPS secondo il Fly)

“Ricalcolo … potrebbe essere tua nipote. Disregard. (bip,bip)!”

Sarà per questo che non mi porto il GPS, ma oggi mi avrebbe fatto comodo assai!

Continuo la marcia sotto ad un sole esagerato (ho tolto il pile perché è meglio il raffreddore della rosolia!), ma sono felice di aver ridato un senso al percorso.

Attraverso la cittadina di Anglet da est ad ovest in tutta la sua estensione e ripenso a quelle poche e vacue ricerche che avevo fatto a casa, circa queste tappe francesi:

esiste una … voie du littoral … forse … sentier du littoral … mi salta agli occhi un cartello:

“Promenade du Littoral”!

No, “Promenade” mi pare di non averlo mai letto, però dai: promenade … sentier … voie …!

Scoprirò ancora una volta che le parole hanno un senso e “promenade” è solo qualcosa che mi farà allungare il giro ancora di più. Sono cinque ore che cammino come se fossi uno di quegli aspirapolvere (sai, le televendite al mattino presto nelle piccole TV locali …) che vanno da soli e di fronte ad un ostacolo sbattono e tornano indietro, sbattono ancora e tornano indietro, si incastrano e ruggiscono imperterriti lustrando l’angolino di pavimento che li ha intrappolati, come uno specchio: io sto andando esattamente così!

Impantanato infondo ad una “promenade” senza sbocco, lustro l’ultimo lembo di spiaggia e torno indietro lentamente: la batteria sta per esaurirsi.

Un cartello dietro ad un dosso ( adesso sto lucidando una strada statale), mi fa piegare le ginocchia:

“La ville de Anglet vous da la bienvenue”

(mi scuso coi francofoni se l’ho scritto male: non mi mettete in croce, perfavore, che fa caldo ed ho già i miei problemi!)

Come … la bienvenue … !!!

Penso nella mia testa mentre deglutisco a vuoto.

Sono ore che cammino attraverso Anglet … che accidenti vuol dire “La Bienvenue”???!!!

Evito che l’aspirapolvere si fulmini giusto per pochi secondi: un cartello dieci metri più in là, mi dà il benvenuto anche a Biarritz.

Per lo scampato pericolo di essermi perso ancora, lucido a specchio il marciapiede!

Non ho mai capito il perché di quel cartello e tutto sommato non me ne frega niente perchè ormai è da tempo che non mi faccio più domande: so che Biarritz è sulla mia strada ed ho deciso che è lì che mi voglio fermare, fare una doccia lunga un’ora,mangiare un bufalo, bere un paio di birre e poi andare all’ufficio del turismo per farmi spiegare gentilmente dove sono, cosa faccio qui e cosa farò domani e nel contempo farmi timbrare la credenziale della tappa più strana e squinternata che mai pellegrino potesse concepire.

Hotel/ Pensiòn “Le Blue Sapphire”.

Un nome tanto pretenzioso meriterebbe più di una stupida ed insignificante stella: si capisce appena entrati che sono stati pure di manica larga nell’assegnargli la categoria, ma me la farò bastare.

Mi fiondo dentro alla locanda dal nome importante, spinto da una forza misteriosa sulla quale non ho alcun controllo.

Fino a domattina sarò solo uno dei tantissimi turisti che vagano con l’espressione goduriosa dipinta sulle facce rubizze e soddisfatte di coloro che finalmente sono in ferie.

In questa ridente e colorata cittadina di mare in territorio basco!

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21 Aprile: Biarritz-Ciboure. 17 km.

All’Ufficio del Turismo sono gentili e solerti: mi regalano “una guida” che in realtà è un pieghevole sul quale è stampata a colori accesi, come disegnata da un bambino, la costa che da Biarritz porta ad Hondarribia, in Spagna, lungo quel percorso che chiamano “Sentier du Littoral”: NON “Promenade” du Littoral, ma Sentier e credetemi fa una bella differenza!

Non mancano nemmeno piccole balene con gli occhioni sorridenti e lo spruzzo d’acqua sulla testa, le barchette,i velieri, il sole con gli occhialoni neri ed il sorriso ebete e gli ombrelloni colorati.

Questa cosa qui, dovrebbe “guidarmi” almeno fino al confine iberico, ma ho più l’impressione che mi possa condurre dritto a Paperopoli o a Cartoonia.

E vabbè … questo è quanto sono riuscito ad ottenere ed è meglio una seppur flebile traccia, che vagare senza costrutto come è accaduto oggi!

Il pieghevole adesso è aperto sul bancone ed il giovane impiegato si schiarisce la voce, apprestandosi, con mia gradita sorpresa, a darmi le delucidazioni in un italiano assolutamente perfetto:

“Il Sentiero detto … del litorale. Allora: …”

“Ah, quello: ne ho sentito parlare!”

Mi vien da dire ripensando alle mie ricerche invernali sul web, ma intuisco che non gradisce essere interrotto, forse per non perdere il filo.

Faccio un gesto della mano come dire: “Scusa, non parlo più!”

“Dicevo: … il Sentiero è molto ben segnalato ed talmente difficile perdersi che lo potrebbe fare anche un bambino da solo”.

Dietro al sorriso affabile del giovanotto, mi pare di intravedere un impercettibile ghigno: mica si sarà già sparsa la voce sul casino che ho combinato oggi !!!

“Non ci si può sbagliare!”

Chiosa.

Non posso fare a meno di notare che mi aveva detto la stessa cosa anche Cathy, e sappiamo come sia andata a finire!

“Il seguente percorso, parte da Bidart,paese molto caratteristico, merita una sosta …”

(il ragazzo adesso parla come se fosse ad una conferenza o dovesse vendermi qualcosa)

“… ed è ubicato a circa sette chilometri da dove ci troviamo adesso”.

Seguiranno molti altri particolari prima che mi congedi con un sorriso e l’aria di chi ha svolto bene il proprio compito.

Lo compro!

Mi verrebbe da dire.

Compro due Bidart e già che c’è mi incarti anche Biarritz.

Mi limito a far cenno di aver capito, ripiego la mappa, ringrazio, saluto,esco, mi metto in tasca il pieghevole con le balene che sorridono e ripasso mentalmente tutte le indicazioni mentre mi godo l’aria estiva e vacanziera di questa adorabile cittadina.

L’indomani eccomi di nuovo in strada, di buon’ora e con un vento frizzante a soffiarmi sull’accendino ogni volta che tento di accendermi una paglia.

Salgo un costone lungo l’arteria principale ed il panorama man mano che vado verso l’alto, si fa sempre più suggestivo.

L’aria è limpida e da qui posso vedere in lontananza, il profilo della costa fino ad oltreconfine, immerso in un mare piatto e di un fantastico blu cobalto.

Smanetto sul mio mp3 alla ricerca di qualcosa che mi tenga compagnia ma probabilmente non è la playlist più “easy” del mondo perché continuo a “scrollare” nomi di autori che tendono a pesarmi sullo zaino:

“Cranio Randagio”…

“Rancore”…

“Mostro”…

“Pathos”…

Sono alcuni dei rapper che rappresenteranno la colonna sonora di questo Viaggio: portano questi nomi e la promessa che ci sarà poco da ridere:

“Fidati di me, non di loro,
Ti sei inventato un altro te solo perchè ti senti solo.
Ti schianti al suolo per il peso dei pensieri,
Mentre nella testa parlano fra loro gli emisferi.
Questa musica è pericolosa perché è senza cuore,
Dà un nome alla mia attrazione morbosa per il dolore.
Della vita so che niente mi intrattiene tranne il caos,
Ma se mi chiedi come sto, "Va tutto bene, grazie. Ciao!"


(Nitro,” Bipolar Mind”)

Ci sarà poco da ridere,ci sarà poco da ridere …

Ben presto lo spettacolo che mi regala questa via panoramica a picco sul mare, lascerà il posto ad una strada che, a quest’ora, è un rosario di auto verso Biarritz.

I loro occupanti pestano sull’acceleratore con la frenesia di coloro che si sentono indispensabili, mentre l’inutile pellegrino sta andando in senso opposto e deve fare molta attenzione per non essere speronato dalla loro urgenza di esistere.

La strada è un imbuto ad una corsia a causa dei lavori per asfaltare e costruire un marciapiede (dio sa quanto mi servirebbe, adesso!) che eviti la commistione tra auto e pedoni e tra rantoli “hip hop” e zig zag tra cantieri aperti, (oh, ma vi siete messi d’accordo tutti assieme o vi fanno lo sconto comitiva sul catrame?) giungo sano e salvo al paese di Bidart:

“Ongi Etorri”.

( “Benvenuto” in lingua basca).

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Grazie, ma ho rischiato di non arrivarci vivo, appiattito come una sogliola tra la spalletta di un ponticello ed una betoniera di Formula Uno.

Lo dicevo io: ci sarà poco da ridere!

Finalmente un cartello bianco mi indica il tanto agognato Sentier du Littoral, invitandomi a percorrere una ripida “bajada” che porta dritto al mare: so che prima o poi dovrò risalire e considerata la pendenza a scendere … si,

Ci sarà poco da ridere.

Inizierà un rosario “up n’ down” di quelli che spezzano le gambe (in senso lato: per spezzarsela letteralmente mi ci vorrà ancora del tempo!) sulle falesie che sovrastano la spiaggia, molto suggestive ma perniente ideali per un viandante “a lunga percorrenza” e con uno zaino dal peso non indifferente.

Faccio conoscenza con due giovani fidanzatini di Bordeaux che sono qui proprio per un’escursione sul Sentiero.

Sono carini, mano nella mano e dopo due chiacchiere di prammatica, “tiro via dritto” per non interferire con i bacini e le tenerezze che si scambiano un passo si ed uno no: non è spettacolo per vecchi barbogi e nonostante la loro cortese attenzione alla mia presenza, ho la sensazione di essere di troppo.

A Guethary mi concedo una sontuosa colazione (ho individuato il camping dove avrei dovuto dormire ieri e trovo che non era affatto male!) stacco le gambe ai pantaloni per combattere il caldo che si sta facendo sentire e soprattutto faccio il punto della situazione.

Scendere e salire dalle falesie mi allunga il percorso e mi stanca inutilmente: devo trovare un sistema più redditizio per poter arrivare a destinazione.

La risposta alle mie domande arriva da un cartello proprio di fronte a dove stavo seduto a fumare: quello che indica la via per i ciclisti!

Eureka che ho finito di fare saliscendi tra i sassi!

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La mia gioia per questa interessante scoperta, è sviata,ma se vogliamo allietata, dal sopraggiungere dei due giovani innamorati:

“Raùl!”

“Ciao ragazzi!”

I due confettini tutti rosa mi passano davanti abbracciati come i pupazzetti di Peynet e mi sorridono felici dal loro quadretto fatto a forma di cuore.

Si fermano e mi offrono della cioccolata: evidentemente ci facciamo simpatia, lei (si chiama Claire) mi vuol regalare addirittura una piccola calamita con uno di quegli “Smile” gialli disegnati sopra.

“Per ricordo”.

Mi dice con la vocetta di bimba, assestando un colpo niente male alla corazza del mantra rap-negativo che stamani si è impossessato di me:

ci sarà poco da ridere.

Non sapevo come contraccambiare e stacco dallo zaino la mia spilla con l’immagine di Che Guevara:

“Per non abbassare mai la guardia”.

Le dico.

Ci saluteremo così,ognuno con in mano il proprio prezioso regalino e monito: io che imparassi a sorridere di più; lei che se solo si prenderà la briga di conoscere la storia di quel rivoluzionario dalla faccia truce, forse acquisirà una consapevolezza più “in linea con i tempi”, che la vita non sempre è un quadretto rosa a forma di cuore e se non lo si scopre per gradi, potrebbe diventare problematico!

E ci sarà poco da ridere.

Claire con il suo “Smile” mi invita inconsapevolmente a prenderla con più leggerezza; io con il mio “Che” le suggerisco “di stringere un po’ di più gli spallacci del suo zaino”,che il Cammino della vita non è su un ponte ricoperto di bambagia ed arriverà la mezzanotte e la carrozza coi cavalli bianchi potrebbe trasformarsi in zucca, anche se il mio augurio per te, per voi,ragazzi, va ovviamente in senso opposto.

Entrambi abbiamo ragioni da vendere, entrambi regaliamo ciò che sappiamo, entrambi offriamo un sunto della nostra esperienza,offriamo ciò che ci viene meglio, in un equilibrio che si compensa fino ad elidersi.

L’incontro con i due sbarbatelli innamorati è stato un grande dono del Cammino e proprio in una giornata che si prospettava “scura” nonostante il sole estivo.

Ma infondo Claire si dimostra più saggia di me: si può e si deve sorridere, d’altronde lo faceva anche Che Guevara.

Come ho letto in una sua biografia, si può essere guerriglieri senza perdere la tenerezza. (cit.)

Continuerò il mio Cammino con una nuova consapevolezza e non a caso, da adesso in poi il percorso sarà in piano e senza ostacoli, grazie al sentiero per ciclisti si, ma grazie anche a Claire ed al suo ragazzo.

Mi misurerò con questa nuova condizione,sono qui anche per far perdere peso all’anima,perchè il Cammino è la sua palestra naturale e chiunque si incontri è un personal trainer.

Mi sono meritato un premio? Si, la baia più bella e spettacolare che mi sia mai stata regalata da una passeggiata sul mare: la baia di Saint Jean de Luz, con la sua spiaggia infinita ed incastonata come un semicerchio perfetto su una cittadina piccola ma di grande fascino.

Il morso perfetto che un gigante di proporzioni smisurate ha dato alla costa come se fosse un pezzo di pane: l’impronta di quel morso che ha regalato al mare un enorme pezzo di entroterra.

Mai vista una baia così.

C’è di che sorridere!

Di là dal porto, mi aspetta Ciboure, la parte più popolare e meno vacanziera della baia, scelta non a caso perché speravo di trovare da dormire a prezzi meno turistici e più pellegrini,ma la mia speranza si rivelerà un’illusione che,tra vitto e alloggio in “mezza pensione” mi costerà quanto cinque giorni di Cammino sul Francese.

Seduto su un muretto di fronte al mare,penso che con un’ora di viaggio in più, mi sarei potuto fermare oltre, a Socoa, sicuramente molto più graziosa di Ciboure e soprattutto meno pretenziosa!

Si sbaglia proprio per poter avere la possibilità di imparare (visto mai che ci fosse una seconda chance … ).

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Mentre me la prendo con me stesso per non essere stato troppo accorto e per il pressapochismo nello scegliere la sistemazione logistica, tiro fuori il pacchetto di Marlboro dalla tasca e nel gesto mi cade qualcosa … mi chino e lo raccolgo … è un pezzettino di plastica gialla dalla forma rotonda con una calamita sul dorso:

“Smile”!
 
22 Aprile, Ciboure-Irun. 18 Km

Ho un blocco, non so come iniziare il racconto di questa tappa che di per sé non presenta grosse difficoltà ne’ paesaggi diversi da quelli incontrati fino ad ora:

Mare, costoni a picco sul mare, strade che costeggiano il mare, cittadine sul mare … cosa c’è da raccontare oltre al mare?

Sono da solo e quindi non posso interagire con nessuno, parlo tra me e me e nel confronto dialettico ne esco, quasi sempre, sconfitto, quindi mi adiro con me stesso, smetto di parlarmi per un po’ e metto il broncio: in certi momenti se potessi mi lascerei a casa!

Dopo tre o quattro giorni di solitudine,l’uomo è animale sociale ed anche gli orsi come me lo sono, finisco per avvitarmi in pensieri che non hanno ne’ capo ne’ coda, li infilo nel frullatore e poi li passo al microonde nella speranza di renderli intelligibili a me stesso.

Quasi mai riesco a portarli ad una conclusione che abbia un senso.

Frustrante!

Il clima continua ad essere decisamente estivo ed inizia a prendere forma la disgraziata abbronzatura da “hombre de campo” che contraddistingue il pellegrino: il segno delle calze, dei calzoni corti e della maglietta: collo e braccia neri e torso bianco latte. Gambe miseramente a strisce orizzontali.

Comincio a riconoscermi nei segni tipici del camminante.

Lascio l’inospitale Ciboure senza alcun rimpianto, seguendo col mio passo la seconda metà del grande semicerchio che forma la profonda baia, fino al paese di Socoa dominato dalla bella rocca sul mare.

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Non so perché sia tornato in Cammino e non so perché abbia scelto questa parentesi francese invece di iniziare da Irùn come si usa fare: perché da Bayonne? E perché, a questo punto, non direttamente da Parigi? Ed allora, perché non da casa?

Cosa mi ha portato su questa splendida costa basca?

Uhm … stamani non si va, non c’è verso: non so perché ma mi sento “fuori posto”.

Dopo Socoa la strada diventa una pista che sale ripida verso un radar militare e dall’alto di una grande falesia, la pista si fa sentiero, poi si fa viottolo, stretto e suggestivo perchè a picco sul mare.

Un nastro di terra dove due persone affiancate non potrebbero camminare, che più avanti nel tragitto si srotola parallelo ad una strada asfaltata a basso volume di traffico che comunque rimane nascosta dalla vegetazione.

Ogni tanto qualche vecchio cannone con chissà quale storia da raccontare, punta la sua inservibile bocca da fuoco verso il mare aperto, a testimonianza di un passato fatto di tentativi di conquista e di difesa uguali a se stessi nello spazio e nel tempo.

L’uomo non è mai stato un essere tranquillo!

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Giù in basso ogni tanto, calette discrete ospitano i primi bagnanti della stagione, sovrastati dagli strati di roccia delle falesie che il tempo ha sovrapposto in una serie di strisce dal colore diverso: uno spettacolo geologico impressionante!

Si continua in questo sontuoso panorama di dolci saliscendi, fino alle porte di Hendaye, dove la natura lascia il posto alle prime case (più che altro alberghi ed agriturismo) della città.

Hendaye è uno dei tanti incantevoli centri vacanzieri della costa, ma questo, al contrario degli altri visti fino ad ora, è molto più grande.

Non mi prende … “questa tappa non mi prende”: non c’è niente di diverso dal punto di vista panoramico e non succede nulla che mi dia lo spunto per raccontare.

Giornata loffia!

Ho percorso in tre giorni un tragitto che (se non mi fossi smarrito il primo giorno) si dovrebbe percorrere in due, non mi importa, io non sono competitivo e non amo gareggiare ne’ con me stesso ne’ tantomeno con gli altri e chi mi conosce bene lo sa!

Se dovessi competere, preferirei perdere perché a chi perde non è richiesto di dimostrare null’altro, mentre chi vince dovrà ripetersi e ripetersi non è mai facile. A me piacciono le cose facili e quindi mi piace perdere, o perlomeno non lo vivo come un dramma.

Le migliori intuizioni le ho avute da perdente e le più belle lezioni di vita anche: chi vince sempre è antipatico, mentre chi perde fa simpatia; e poi si impara dalle sconfitte, mica dalle vittorie!

Questa tappa è ben segnalata e si procede brillantemente senza scossoni e senza imprevisti: vuoi mettere la “suspence” del primo giorno quando ogni passo era inesorabilmente “dalla parte sbagliata?”

Mi perdevo e ne ridevamo insieme: oggi vado dritto come una spada e che palle, non succede niente.

Cosa volete che vi racconti: mare, strada sul mare, falesie a picco sul mare, cittadine di mare … non vedo nemmeno le balene con gli occhioni che fanno capolino dalla cartina di Paperopoli: finchè il mare è sulla destra, non c’è niente da raccontare ed il Cammino va via spedito.

Sarei tentato di perdermi, di fare qualcosa che mi possa leggermente incasinare per vedere come va a finire.

“Perché sono in Cammino?”

Adesso lo so: è proprio per vedere ogni giorno “come va a finire” e quando tutto procede piatto ed incolore,quando so già come andrà a finire, mi rompo cristianamente i c0gli0ni!

Quasi quasi esco dal Cammino (sono oltre Hendaya) e cambio strada per vedere che succede, chi incontro, che cosa c’è dentro al cilindro del Mago: di solito tira fuori conigli e la cosa non sorprende più nemmeno un bimbo di quattro anni.

Mi piacerebbe stupirmi, veder uscire altro.

Mi sto annoiando.

Sono tentato di lasciare il Cammino per recarmi nuovamente ad Hondarribia (ci sono stato un po’ di anni fa ed è uno dei posti al mondo che preferisco), ma devo ancora fare un po’ di strada verso Irun per poi fermarmi in un negozio di telefonia a comprare la scheda per il mio smartphone: di solito queste operazioni prendono molto tempo e vorrei sbrigarmi a chiudere la noiosa incombenza.

Ma posso farmi tutta questa strada con l’obbiettivo di comprare una scheda del telefono?

Il mio sguardo è troppo grande per un cielo così piccolo, per questo me ne vorrei andare.

Molto spesso le parole migliori sono quelle che non sono mai state spese e quindi oggi conviene leggere tra le righe e tra gli spazi, perché non succede nulla e non c’è nulla da dire.

Tappa piatta

Calma piatta.

Penso con le lettere a caratteri enormi come nei libri per bambini, affinchè bastino poche frasi a riempirmi i pensieri: sto per lasciare la Francia per la Spagna e questa è la notizia.

La fine dell’avvicinamento lento.

Ho una voglia matta di passare il ponte sulla Bidassoa,quello detto di San Giacomo, che divide o meglio,unisce, Francia e Spagna!

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Ne ho sentito parlare così tanto che non vedo l’ora di camminarci sopra anche se scoprirò che non sarà poi così emozionante come mi sarei aspettato.

Il lungo ponte …

qui di fronte …

inizio …

confine …

prima freccia gialla …

indizio …

fine!

Sono in Spagna e, senza squilli di tromba, arrivo ad Irun attorno a mezzogiorno: come dicevo pocanzi, sistemo la “questione telefono” prima di mettermi alla ricerca dell’albergue.

Che emozione: una vera figata!

“Uhuh, sì so come ci si sente, fra’:
mi sento solo anche in mezzo alla gente
Voglio prendere il volo ma non serve a niente
Qua mi tengono al suolo per usarmi da salvagente
Non lo sapevi, qua non si salva niente
Il mio diavolo guida la strada e non ha la patente
Ho la prigione in testa
Se cercavi una storia dove tutto era okay, beh non è questa”


(Mondo Marcio,”Questo cuore queste stelle”)

“Sai mica dov’è l’albergue,amico?”

Sono due pellegrini, i primi veri pellegrini che incontro in tre giorni.

Spiego loro che si, lo so ma so anche che aprirà solo alle quattro e quindi è inutile andarci.

“Io ho in mente di andarmi a bere una birra in attesa che apra”.

“Buona idea! Ti dispiace se ci uniamo a te per la birra?”

Ed è così che ho fatto la conoscenza di Jens, ventiquattrenne belga partito da casa sua a Brusselles ed in giro ormai da quasi due mesi e con Derek, olandese di settant’anni ,partito da qualche località della Francia il cui nome rinuncio a capire nonostante tre tentativi, perché parla come se stesse masticando dei marschmallows: sono un paio di settimane che viaggiano assieme.

Avevano un sacco di cose da raccontare e siamo entrati subito in sintonia: le birre ed i panini, le chiacchiere e gli aneddoti ed ecco che la parentesi noiosa di attesa dell’albergue diventa un piacevole momento di condivisione: al terzo giro di birra, eravamo già diventati “amiconi”!

Capita sempre così ai pellegrini!

Finalmente qualcuno con cui parlare: dopo l’incontro con i fidanzatini, non avevo quasi più udito la mia voce.

L’albergue di Irun è comodo, pulitissimo e quando arriviamo noi (ben oltre le quattro!), già quasi al completo: per me che fino a quel momento non avevo visto neanche un pellegrino,è stata una piacevole sorpresa ed un “ritorno al Cammino” dopo tre giorni da “girovago”.

Uh, se c’è differenza: sei pellegrino quando cammini tra altri pellegrini su un percorso pellegrino, altrimenti sei più che altro un vagabondo con uno zaino sulle spalle, del tutto fuori sintonia in un contesto marcatamente turistico come quello che mi ha portato fino a qui!

Ora è davvero Cammino!

Bayonne è città pellegrina, ma stranamente, tutto ciò che sta fuori da essa, non lo è affatto : bisogna arrivare ad Irun per capirlo!

Al nostro piccolo gruppetto si aggiungeranno altri due amici: Francesca, di Verona e Roberto, di Bologna, entrambi domani saranno alla loro prima tappa.

Sul balcone dall’albergue nella sera tiepida di Irun, fumando sigarette e raccontandoci la vita,nasce “Crazy Family Pilgrims”,la nostra piccola e ridanciana famiglia: staremo bene insieme fino a che durerà e ci lasceremo reciprocamente più di un segno scolpito nel cuore.

Jens, Derek,Francesca, Roberto e Raùl: cinquanta chili,o giù di lì, di zaini pieni di Cammino,con tutto ciò che questa parola può significare.

Un nuovo Viaggio che sta prendendo forma.
 
23 Aprile: Irun- Donostia. 28km.

Francesca ed io siamo i più mattinieri, tanto più che due brande a fianco alla mia, dormiva un grassone di Viterbo che ci ha voluto regalare una notte assai rumorosa (ed il suo formidabile russare era canto di usignolo, a confronto con ciò che riusciva a fare con un’altra poco nobile parte del corpo!!!).

Verso le cinque, il tizio che dormiva nel letto sopra al mio, scende dal proprio giaciglio con una velocità ed un gesto atletico degni dell’Uomo Ragno, sacramentando in polacco: Marcus, questo era il suo nome, aveva una vaga somiglianza con Mike Tyson, se non fosse stato per il colore della pelle molto più chiaro e l’espressione del volto molto più minacciosa rispetto al pugile più incazzoso del mondo.

Ho temuto sinceramente per l’incolumità del “trombettiere della Tuscia” che,ignaro, continuava (anche!) a ronfare come se nulla fosse.

Fortunatamente Marcus si limita a prendere le proprie cose e dileguarsi alle prime luci dell’alba , non senza aver creato frastuono tra bestemmie incomprensibili e rumore di cose gettate nello zaino alla rinfusa.

Credo che tutti in quella cameretta (tranne l‘ignaro e pacioso zampognaro,ovviamente) fossimo svegli, ma nessuno osava dire a quella massa di muscoli incattivita da una notte insonne, di fare più piano, anzi … fai pure con comodo: a noi non dà alcun fastidio dal momento che un tuo bicipite è grande quanto la coscia di un wrestler, hai tutto il diritto di fare casino!

Per qualche istante ho rimpianto le tranquille notti solitarie passate in Francia, ma soprattutto, ho maturato la certezza che “Caminante,no hay Camino”, Machado l’abbia scritta in un frangente totalmente diverso da questo!

Nell’altra stanza, Roberto, Jens e Derek parevano dormire noncuranti del nostro piccolo dramma ed il risultato di tutto ciò ha fatto si che Francesca ed io fossimo in strada già prima delle sei, mentre il resto della famiglia stava ancora nel mondo dei sogni!

“Rombo di Tuono”, il pellegrino più imbarazzante che avessi mai incontrato, ci convinse suo malgrado, che era proprio il caso di non indugiare oltre,salutandoci con un'altra “nota bassa” da far tremare un woofer, proprio mentre varcavamo la soglia della mefitica stanzetta.

“Non accendere la torcia che qui l’ambiente è saturo e salta per aria tutto!”

“Davvero?”

Mi domanda Francesca sbigottita.

“Ma no, era una boutade!”

“Ah, in Francia le puzzette si chiamano così?”

“Perché, quelle secondo te erano … puzzette?”

“No, erano boutades … perché sono più roboanti, giusto?”

Ci stavamo avvitando in un dialogo surreale e lasciai cadere la cosa anche se per un attimo ho pensato sul serio che a Francesca mancasse un venerdì.

Usciamo da Irùn per inoltrarci nelle campagne lungo il declivio che sale sempre più ripido verso la chiesetta della Virgen de Guadalupe.

Per me era la prima “vera salita” da quando ero partito da Bayonne, mentre per la mia nuova compagna di viaggio, era la prima in assoluto, almeno per quel che concerne questo Cammino e nonostante ciò, aveva un passo deciso e senza il minimo accenno di fatica ne’ fiato corto.

La osservo andare come un treno e lei mi legge nel pensiero:

“Eh, si … mi sono … (fa una pausa) un po’ allenata”.

Scopro così che è tornata da poco da un trekking in Nepal dove si è fatta un mese di escursioni fino a cinquemila metri: “un po’ allenata …”!

Così è la Franci: un po’ ingenua ma determinata,entrambe le cose interpretate con una velata noncuranza che a volte ti destabilizza.

Arriviamo alla chiesa che lei è (ovviamente) un fiore, mentre io sono già da buttare.

Ci scambiamo biscotti, cioccolata e frutta, seduti su una panca mentre ammiriamo la baia sotto di noi e, complice il bel panorama, indugiamo un po’ più del necessario assaporando quella prima sosta: giusto il tempo di veder arrivare Derek e Jens:

“Buongiorno! Non vi aspettavamo a quest’ora!”

Jens ci informa che hanno passato una nottataccia perché dalla stanza attigua si sentiva russare e addirittura …

“Okay, okay … lascia stare!”

“Sentito che “boutades”?”

Fu la chiosa della Franci.

Per sviare l’argomento chiedo di Roberto:

“Si, è partito con noi ma è dovuto tornare indietro perché ha lasciato il sacco a pelo sulla branda!”

Vabbè … può capitare.

I miei tre compagni, decidono di proseguire per “la via alta”,molto più impegnativa del sentiero a mezza costa: non è il Cammino ufficiale,ma da lassù si dice che la vista sotto sia fantastica!

Io declino l’invito, preferendo misurare le forze: sono i primi giorni di viaggio e la tappa si preannuncia un pochino più tosta del solito. Santiago è lontana e vorrei arrivarci senza la lingua penzoloni!

Ci salutiamo dandoci appuntamento a Pasaia o nel caso non ci trovassimo, direttamente a Donostia.

Il mio Cammino continua su una pista non troppo impegnativa, tra castagni, lecci e caproni al pascolo: non sarà stato il panorama del secolo, ma meglio centellinare le proprie energie che ammirare le meraviglie del mondo con il fiato grosso!

Nonostante il mio percorso fosse il più agevole, quando arriverò a Pasaia, i miei tre compagni saranno già seduti al bar della piazza a bere caffè: mi complimento con loro, guardo le foto che hanno scattato lassù in alto (bellissime davvero!) ed io mostro loro le foto che ho fatto ai caproni. Ognuno il suo, indugiando sotto il bel sole di quella giornata estiva, in una piazzetta curata ed accogliente come un salotto.

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“Schettinou! Salga a bordo, caccio!”

Mi urla in un italiano stentato il vecchio Derek già seduto sulla barchetta che ci avrebbe condotto all’altra sponda.

Risata generale: le italiche figure da giullari,da irresponsabili o entrambe le cose ed i loro tristi autori, hanno sempre un risalto internazionale, ma questa non me l’aspettavo proprio!!!

In realtà mi ero attardato a fare non so cosa ed aspettavano solo me per traghettare: mi sbrigo, salgo a bordo, caccio, ma non so se ridere con loro o vergognarmi del passaporto che ho in tasca.

La dura scalinata che segue di lì a poco, verso il faro, toglie il fiato soprattutto a Derek, ma oramai si era instaurato il tormentone ed ogni tanto ripeteva l’unica frase che conoscesse nella nostra lingua: dato che aveva suscitato così tanta ilarità,non si risparmiava di certo e dopo un po’ ero diventato “Schettinou” un po’per tutti.

Sta a vedere che ho fatto tutta questa strada a piedi per farmi canzonare da un nonnetto olandese che vuol fare il “simpatico” e piuttosto incline a sputacchiare quando parla: prima che la cosa sfuggisse di mano un po’ a tutti, ho provveduto in modo bonario ma che non ammetteva repliche, a mettergli un freno.

Ci siamo capiti!

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Si continua a camminare tra boschi frondosi ed allegre famigliole in “gita fuori porta”, fino ad una scalinata rompicollo che ci condurrà, in ordine sparso, a Donostia.

La città dall’alto è sublime e siccome è giorno di festa e fa caldo, la spiaggia è presa d’assedio: scatto alcune foto e mi fermo a fumare una sigaretta.

La Famiglia si muove (e sempre si muoverà) in ordine sparso, ognuno col proprio passo ed il proprio ritmo: ogni tanto ci incrociavamo, facevamo una chiacchiera,un paio di battute e poi ci allontanavamo di nuovo per ricongiungere in un indefinito “altrove”, i nostri passi, tipo elastico.

Roberto ci aveva nel frattempo raggiunto ed ogni tanto il gruppo si ricompattava per una sosta, per poi perdersi di nuovo: magari procedevamo in coppia, ma mai, mai tutti assieme.

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Quindi scendo la lunga scalinata che porta a San Sebastian da solo: appuntamento alla “prima panchina sul lungomare”, perché sicuramente ci saranno panchine sul lungomare,è matematico!

Ci riuniamo che ormai è ora di pranzo, ma prima di fermarsi per un boccadillo, ci concediamo un tuffo in mare, tanto i calzoncini da trekking in materiale tecnico si asciugano subito,no?

Raggiungiamo il bell’albergue (molto fuori mano, purtroppo) che è ormai pomeriggio: ci assicuriamo che non sia presente il “l’inquietante zampognaro” e rinfrancati,direi commossi, dalla sua assenza, stasera andremo tranquillamente per tapas, inaugurando quello che diverrà l’hobby preferito della Famiglia: uccidere bottiglie di vino senza alcuna pietà.
 
24 aprile: Donostia-Zarautz. 21km

Durante la notte la temperatura ha subìto un brusco cambiamento: credo che “le prove di estate” siano finite anzitempo.

Fuori dalla finestra, il cielo è nuvoloso e gli alberi si agitano mossi da un vento che soffia stizzoso.

Ci muoviamo in ordine sparso come sempre, noi “crazy family”, ma poi come per incanto riusciamo sempre a riunirci da qualche parte senza darsi alcun appuntamento se non così, con la superficialità di coloro che sanno per certo che si ritroveranno comunque.

Jens e Derek sono già andati,Roberto dorme ancora, Franci si sta rollando una sigaretta con il suo tabacco, io dopo essermi fatto fregare un paio di monete dalla macchinetta del caffè dell’albergue, decido che forse è il caso di trovarsi un bar vero: metto su lo zaino e mi incammino.

Uscendo dall’albergue, mi aspetta subito una ripida scalinata che mi porta in alto su una stradina alberata: ovviamente di bar, nemmeno l’ombra.

Il vento è abbastanza noioso ma ha il vantaggio,di tanto in tanto, di spostare le nuvole e regalarmi sprazzi di sole rendendo il mio andare più piacevole.

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Il Cammino si snoda tra casette basse e le prime fattorie in mezzo a pascoli verdissimi, Francesca,alla quale ho dato il nome Sioux di “Colei che Cammina Come se Avesse Lasciato l’Arrosto in Forno”, a causa del suo procedere velocissimo, mi ha già raggiunto!

Si adegua al mio andare e facciamo assieme un bel pezzo di strada,conversando su un aspetto affascinante quanto singolare che ha a che vedere con la pasticceria.

“Hai presente quel pasticcino che ha una base di biscotto, la crema in mezzo e sopra un pezzetto di frutta?”

Mi chiede.

Le rispondo che si, è quello che di solito lascio sul vassoio perché non mi attira: io sono per i bignè!

“Sbagliato!”

Chiosa con la sua tipica voce leggera come un sussurro:

“Quel pasticcino è la perfezione!”

Beh … la pasticceria è il suo lavoro e quindi la sua opinione è autorevole: le chiedo di spiegarmi il perché.

“Possiede la base croccante, un ripieno morbido e dolce e la parte della frutta che è acidula: lì dentro c’è tutto”.

“Continua”.

Non ho fatto colazione e dallo stomaco sento partire una manifestazione di succhi gastrici che reclamano i loro diritti.

“Partiamo dalla base: c’è la farina, e dove c’è farina c’è grano, terra, acqua e sole per maturarlo; c’è il lavoro del contadino, del mugnaio e mio che ho fatto un sunto di tutta l’opera altrui.

Poi la crema: latte, mucca, allevatore, limone, albero, maturazione, sole,raccolto,fuoco per amalgamare: potrei dilungarmi sul bastoncino di vaniglia proveniente dalle isole della Polinesia … dai, puoi arrivarci da solo.

E poi la frutta, magari una fettina di ananas: ancora terre lontane, raccoglitrici … non lo vedi il sole dell’Africa? Non le vedi le sue terre rosse e baciate dal sole di rame?

Tu in mano hai tutto il mondo in un solo piccolo pasticcino!”

La osservo ammirato ma non ho parole per risponderle: questa cosa la trovo bellissima e non occorre aggiungere altro.

“Vale per ogni cosa che mangiamo”.

Osservo dopo un’attenta riflessione.

“Già … e nonostante questo, buttiamo tonnellate di cibo!”

Mi sorride, ci fermiamo a fumare assieme una sigaretta e poi riprende il suo andare veloce come un treno, lasciandomi lì con questa nuova visione del più insignificante pasticcino del vassoio che di colpo diventa il riassunto del mondo.

Da bravo pizzaiolo, cammino trovandomi a fare lo stesso procedimento per la pizza e … a parte la vaniglia della Polinesia, funziona perfettamente!

Farina … acqua … lievito … sale … pomodoro … mozzarella … basilico … olio …

Dalla natura al piatto passando per il lavoro.

Un mondo! E parliamo solo della meno elaborata!

Il percorso intanto si fa più impegnativo: la strada è diventata una pista sassosa in saliscendi: con tutto sto pensare al cibo, ho appetito ma nessuna scorta nello zaino: bisogna che al prossimo super, provveda a colmare questa lacuna!

Sento sgorgare dell’acqua da quella che parrebbe una fontana, ma essendo in piena campagna, più facile una sorgente.

Guardo alla mia sinistra ed in effetti vedo entrambe le cose: una piccola sorgente è stata incanalata in un tubo da irrigazione e l’acqua fresca sgorga copiosa.

Scritte su un masso e su vari cartelli, invitano a berla perché perfettamente potabile, ma proprio quelle scritte, mi fanno pensare alle traditrici Sirene di Ulisse.

Non mi fido e passo oltre.

Più avanti incontro Derek:

“Ehi tu, “wise man”: hai bevuto alla sorgente?”

(Lo chiamiamo “wise man” perché è il decano del gruppo,anche se “saggio” non mi pare affatto!)

Risponde da buon mitteleuropeo guardandomi come se avessi fatto la domanda più cretina del mondo:

“Perché no? C’era scritto potabile in tutte le lingue!”

Vai a spiegargli che non è “così facile”: noi mediterranei siamo più sospettosi e posseduti dal virus della dietrologia.

Magari è un’acqua messa lì dalla lobby dell’Imodium: prima te la fanno bere ed alla prossima farmacia ti spacciano l’antidiarroico a prezzi da cocaina pura!

Già, perché noi mediterranei siamo così sospettosi?

Per l’olandese c’è scritto potabile e tanto basta, per noi è un tantino più complesso ma soprattutto impossibile da spiegare in mezza tappa di Cammino: bisognerebbe scavare troppo a fondo, nella nostra Storia!

E comunque i fatti dimostreranno che ha ragione lui, con buona pace mia e della lobby dell’Imodium!

Mi porto queste considerazioni nello zaino fino ad Orio, dove le annegherò per sempre in una tazza di cafè con leche.

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Poco prima di Zarautz, in un piccolo parco nei pressi di un’ermita,il gruppo si ricongiungerà al completo: l’ultimo ad arrivare sarà Roberto.

Il bolognese camminava nelle Crocs con le quali solitamente usa riposare i piedi dopo la tappa e questo ci è sembrato un po’ singolare.

Glielo facciamo notare e la risposta è disarmante:

“Eh, ho dimenticato gli scarponcini in albergue ma non mi andava di tornare indietro”.

Ci guardiamo in silenzio l’un l’altro con gli occhi a punto interrogativo:

Come fai a scordarti gli scarponcini?

Come fai a non accorgertene?

Come fai a non tornare a riprenderli?

Ma non ti eri scordato il sacco a pelo giusto l’altro ieri ad Irun?

“Come fai ad arrivare a Santiago in Crocs? Non dovresti tornare indietro a recuperarli?”

Tutte queste domande le condensa Francesca in una sola ma efficace,poiché se c’è qualcosa che non le difetta, è il dono della sintesi:

“Dì, ma sei scemo?”

Roberto alza le spalle: mostra una calma irritante ed affascinante al tempo stesso.

“Se dimentico tutto, un motivo ci sarà. Ho deciso di non tornare indietro a prendere proprio nulla!”

Il ragionamento non fa una grinza, perlomeno letto sotto ad una luce più “intimista” e meno pragmatica.

Continuiamo,stavolta tutti assieme,lungo una strada a basso volume di traffico: io mi attardo un po’ perché ho problemi con la scheda telefonica che non mi permette di fare le chiamate internazionali.

“1200”, il numero dell’Operatore Telefonico, l’unico numero che non fatico a memorizzare: mi risponde Vivaldi.

Ci avete fatto caso? Ovunque ti mettano “stand-by” in attesa di un operatore libero, “la musichetta” dell’attesa è sempre quella!

Povero Vivaldi: se avesse saputo che le sue “Quattro Stagioni” sarebbero state svilite a “musichetta” (“Ti hanno risposto? No, c’è la musichetta …”) forse avrebbe fatto meglio a darsi alla pesca al tonno, anziché comporre!

Dopo essermi deliziato un quarto d’ora con una qualche “Stagione”, finalmente riesco a parlare con qualcuno e risolvere il mio problema,proprio quando ormai siamo arrivati alla fine di questa tappa.

L’albergue di Zarautz apre solo d’estate e quindi ci siamo messi in cerca di una pensione, e la fortuna ci regala una splendida sorpresa: un appartamento molto grande con sei posti letto, ad un prezzo da “fuori stagione”!

Capita che strada facendo la Famiglia sia aumentata perché abbiamo imbarcato una ragazza tedesca: si chiama Mona ma per quell’ovvia ragione che i veneti conoscono a memoria e che sarebbe ozioso spiegare anche a chi veneto non lo è, noi tre italiani la chiamavamo semplicemente Teresa.

“Ciao, io sono Mona”.

Ma te lo immagini?

E la Famiglia ha addirittura trovato una casa: minaccia seriamente di piovere, ma ormai siamo al sicuro ed a dispetto del tempo inclemente, ci regaleremo addirittura il secondo bagno in mare di questo Cammino!

Per me non ce ne saranno altri, ma questo ancora non lo posso sapere.
 
25 aprile: Zarautz-Deba. 25Km.

E’ che ieri sera nella “nostra” casa abbiamo tirato tardissimo e l’ultima bottiglia è stata stappata che era già scoccata l’una.

L’ho detto: quello di aprire bottiglie di vino è il nostro marchio di fabbrica, però stavolta mi sa che abbiamo esagerato!

Il fatto è che dopo cena abbiamo cominciato con quelle domande altamente pericolose che si fanno in Cammino:

Perché sei qui sui Sentieri … quali sono i tuoi sogni … cosa ti aspetti da questa esperienza …

Dai, ci siamo cascati un po’ tutti ed è pure un momento importante,lo sappiamo: ma farlo con un numero esagerato di bottiglie di vino nella dispensa, fa diventare questo giochino molto “sdrucciolevole”anziché no!

Fatto sta che l’abbiamo tirata tardi e stamattina siamo tutti un po’ ribaltati: sono già le otto di mattina e la casa è avvolta nel silenzio.

Qualcuno farà finta di dormire perché durante “il giochino” le ha sparate un po’ grosse e stamattina sta con la testa nascosta sotto le coperte.

Comunque le gambe peseranno sicuramente un po’ a tutti ed arrivare a Deba non sarà uno scherzo!

Esco di casa sotto ad un cielo nero che non promette nulla di buono; il bar nella piazza è già aperto e ne approfitto per fare una ricca colazione a base di tostadas e caffè nero.

Metto le cuffiette e manco a farlo apposta, Marracash mi legge nel pensiero con la sua musica e soprattutto con le sue parole:

“Nella testa c’ho un grosso bordello che faaaaaaaaaaaaaaa … bada bum bada bum bada bum cha cha” …!!!

Colpa del vino de la Rioja a prezzi pellegrini, ed un po’ anche della vita a prezzi un po’ più alti.

Inizio a camminare sotto alle prime gocce di pioggia. nascosto da questo poncho nero devo avere l’aspetto di uno spirito maligno.

A Zumaia mi fermerò per una seconda colazione: sarebbe interessante da visitare se il tempo meteorologico lo permettesse e mi limito ad osservare un po’ il mare color piombo mentre fumo una sigaretta e mi sorseggio un altro caffè.

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Della famiglia manco l’ombra: la bruma ormai ha preso possesso di ogni cosa e forse degli stessi pellegrini che, curvi dentro ai propri abiti da pioggia, camminano quasi di fretta nella speranza di arrivare il prima possibile alla meta che si sono imposti.

La tappa si dipana tra bosco ed asfalto con qualche puntata sul mare e sarebbe gradevole e varia se non fosse per ‘sto tempaccio, ma stamani va così: in realtà sono già un paio di giorni che “va così” e mi comincia un po’ a mancare il bel sole che mi ha accompagnato lungo la costa francese.

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Lasciando l’asfalto per inoltrarmi nel bosco verso Itziar, sembra che Giove Pluvio voglia almeno darmi un po’ di tregua e ne approfitto per mandare un messaggio alla Famiglia sul nostro forum, giusto per avere la certezza che siano tutti vivi!

Rispondono all’appello alla spicciolata (sono tutti più o meno sui sentieri) e chiedo a Roberto che cosa si sia dimenticato stavolta:

“Gli occhiali da sole, ma tanto piove … “

Lo fa apposta! Secondo me lo fa apposta!

Nel bosco (io lo chiamo bosco perché ci sono alberi, ma in realtà è pascolo) faccio la conoscenza con una nuova amica: una giumenta con un campanaccio da mucca attaccato al collo: mi viene incontro lentamente ma inequivocabilmente, seguita dal suo puledro.

Mi fa simpatia perché è socievole e perché ha questo campanaccio tipico dei bovini che non c’azzecca niente con il suo status di equino: un po’ come mettere il collare del chihuaua al pesce rosso.

Mi offre il muso e si lascia accarezzare: un contadino di passaggio, mi spiega che la cavallina ama moltissimo i pellegrini perché le offrono sempre una mela o una caramella e ormai lei si è abituata a questo e ci aspetta per avere qualche leccornia in cambio di una carezza.

Mi tolgo lo zaino e prendo una pesca.

Ne strappo grossi pezzi con i denti per liberarli dall’osso e glieli offro: pare contentissima, mentre il suo giovane figlio rimane indietro un po’ timido e non pare gradire il cibo.

Ci facciamo compagnia una decina di minuti, il tempo di una breve sosta ed una sigaretta e poi ci salutiamo non prima di aver suggellato la nostra amicizia con un paio di selfie!

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Tempo di rimettermi lo zaino,riprendere il cammino ed essermi allontanato dai cavalli (fortunatamente!) di una trentina di metri, che un botto secco e violento, seguito quasi contemporaneamente da un lampo, squassa la tranquillità del boschetto: un fulmine è caduto a poche centinaia di metri sulla mia destra: dopo essermi ripreso dallo spavento, osservo il cielo e noto che non appare nemmeno particolarmente scuro.

Affretto comunque il passo ma non servirà: salirò verso il paese di Itziar sotto ad un temporale biblico che non mi abbandonerà fino a destinazione.

Con la famiglia non ci siamo dati appuntamento,stavolta: ma visto che le chiavi dell’albergue, nella vecchia casa del capostazione, proprio sopra ai binari, le custodisce l’ufficio del turismo, per certo ci troveremo tutti lì, dal momento che l’ufficio riaprirà solo alle quattro.

Arrivo a Deba e davanti alla porta dell’oficina de turismo, noto che Teresa e Francesca sono già in attesa:

“Scendendo in paese sei arrivato a piedi o hai preso l’ascensore?”

Mi stupisco un po’ per la domanda: che differenza fa?

“La seconda che hai detto, perché?”.

Rispondo.

Infatti si arriva a Deba dall’alto e per scendere in centro c’è la possibilità di farlo con due ascensori risparmiando un po’ di curve in discesa.

“Ecco! E’ un po’ come prendere l’autobus”.

Mi fa notare Teresa:

“Quindi hai barato!”

Chiosa Francesca.

Mi tolgo poncho e zaino e mi siedo per terra senza rispondere: sono stanco ed ancora “stonato” e non mi va di questionare su tali facezie!

(bada bum bada bum bada bum cha cha!)

“Hai visto che panorami?”

“Veramente mi sono guardato le punte delle scarpe per quasi tutto il tempo: con questa pioggia …”

Chiudo gli occhi e mi assopisco.

Alla spicciolata arrivano tutti i pellegrini compresi “i nostri”.

Siamo tutti infreddoliti e non vediamo l’ora di fare una doccia bollente.

Arrivati in albergue, Roberto chiede all’hospitalera se può avere una coperta: ha dimenticato di nuovo il sacco a pelo a Zarautz, ma stavolta rinunciamo a commentare l’accaduto!!!

Solo Jens ride come un matto guardandomi divertitissimo e ripetendo ad libitum:

“Non è possibile … non è possibile … non è possibile …”

Roberto secondo me ha preso a farlo apposta,ripeto: con la sua coperta sottobraccio mi chiede se ho da offrirgli una sigaretta che ha lasciato il suo pacchetto da qualche parte ma non si ricorda dove.

Jens si mette a saltare nella stanza, ha le convulsioni a furia di ridere:

“Non è possibileeeeeeeeeeee !!!!!!!”

“Per non parlare degli occhiali da sole: oggi è stata una giornata ricca!”

Sussurra Franci rivolta al giovane belga, mentre con un ago tutto storto (ma dove lo ha preso? (Boh, stava lì …) disinfettalo, almeno!) sta cercando di bucarsi una vescica sul piede.

Temo che a Jens stia per venire un ictus, da come ride!

Derek (che ha le diottrie di una talpa) sta seduto sulla branda in procinto di farsi un massaggio alle caviglie ed è lì con il tubetto dell’arnica nella mano destra ed il dentifricio nella sinistra: adesso li annuserà così eviterà di passarsi la pasta da denti sulle gambe e soprattutto eviterà stasera di lavarseli con l’arnica.

Teresa ha messo su il suo piccolo altarino personale e adesso si appresta a consumare i suoi riti religiosi pregando in latino. (mi affascina perché mi ricorda le evoluzioni di mia nonna nella lingua dei Padri: sorprendentemente, le orazioni e le formule sono le stesse di allora, e per me ascoltarla è un ritorno all’infanzia!)

Per inciso, ieri mi sono messo a cantare il Requiem con lei:

“Requiem aeternam dona eis Domine/ et lux perpetua luceat eis … “

(evito di chiederle perché si sia invischiata proprio in un Requiem)

Non si capacitava che un ateo impenitente la sapesse “così lunga” in fatto di preghiere in latino ed io ovviamente ho omesso di raccontargli che da bambino stavo sempre con la nonna …

Comunque ogni tanto mi inviterà a cantare con lei e (che prodigio,la memoria!) mi rallegro con me stesso perché seguendola, me le ricorderò quasi tutte!

Non mi fa certo male pregare con Teresa: queste orazioni in lingua antica che affratellano un miscredente ad una beghina: lo trovo fantastico!

Fine dell’inciso.

Tra un paio d’ore saremo tutti di nuovo davanti ad una bordolese di vino rosso a sparare allegramente cazzate, mentre un cielo triste continuerà imperterrito a regalarci secchiate d’acqua come in un infantile contrappasso.

Osservo ad uno ad uno i membri della mia famiglia pellegrina mentre si danno sulla voce divertiti, ognuno con i propri “tic”, ognuno con la sua storia, ognuno con il suo bagaglio anche di tristezze che sorrette tutti insieme sembrano molto più leggere da trasportare.

Roberto ride con la bocca ma mai con gli occhi mentre viene puntualmente preso in giro per questa folle abitudine di seminare tutto per strada come nella favola di Pollicino.

Questi sono teneramente pazzi!

Questi qui sono tutti da psichiatra!

Questi stanno veramente fuori come i balconi!

Questi sono completamente fusi!

Sarà per questo che mi sento così a mio agio in loro compagnia!

(“Bada bum, bada bum,bada bum, cha cha!”)
 
26 Aprile. Deba-Markina 25km

“ Da fuori sembrava un’anomima chiesetta di campagna come tante altre, ma lo spettacolo al suo interno risulterà sorprendente!

Alcuni massi di proporzioni gigantesche,stavano appoggiati l’uno all’altro in una conformazione che sfidava tutte le leggi della fisica compresa quella di gravità.

Poggiavano alla base su una piccolissima porzione della loro superficie e la sensazione è che stessero per collassare da un momento all’altro: riuscireste ad appoggiare tre, quattro o forse addirittura cinque (non le ho contate!), uova una contro l’altra,una sull’altra e sperare che si sorreggano vicendevolmente?

Immaginatevi queste uova in equilibrio instabile, alte quasi una decina di metri e posizionatevi tipo sotto di esse, nell’incavo lasciato dalla loro naturale sfericità.

Adesso ritirate su la mascella che vi è caduta e dondolatevi mentalmente tra la sorpresa, lo stupore e la fascinazione che, come un magnete, vi attraggono dentro ad un gioco di equilibri incomprensibile ed una voce interiore che vi invita a darvela a gambe perché tra un attimo verrà giù tutto il castello: questo sono io mentre ammiro ciò che mai mi sarei aspettato di vedere all’interno di un anonimo ed insignificante tempio.”


La meta di oggi dovrebbe essere Zenarrutza, o meglio la Collegiata dove i frati danno ospitalità ai pellegrini in un ambiente spirituale e suggestivo.

Chi disegna la tappa,ne decide l’arrivo e ne descrive le caratteristiche, saranno come sempre Derek e Jens.

La più entusiasta di questa sistemazione monastica è ovviamente Teresa, perché la sua spiccatissima religiosità ed il suo amore per Gesù (al limite estremo dell’infatuazione!) troveranno finalmente la possibilità di esprimersi al meglio!

Dice di essere stufa di sistemazioni laiche e di bottiglie di vino stappate a notte fonda: qui nel Camino de la Costa,la giovane tedesca non riesce a vedere Dio.

Nessuno di noi raccoglierà il suo “grido di dolore” e non certo per scarsa attenzione alla sua Fede,casomai perché una risposta non l’abbiamo.

O meglio: non ci sembra carino dirle che, forse, il Cammino che ha disegnato nella propria testa, non corrisponde del tutto al vero.

Tanto prima o poi lo scoprirà da sola.

Teresa era a Rio de Janeiro per la Giornata Mondiale della Gioventù e nella sua immaginazione, il Cammino avrebbe dovuto essere qualcosa di molto simile: non riusciva a capire (o non voleva ammettere!) che i Sentieri sono permeati di uno spirito più variegato e senza dubbio sostanzialmente differente, rispetto ad una fervente megariunione di giovani ragazzi ad alto tasso cattolico.

Questo è il guaio di partire con delle aspettative, qualunque esse siano.

Derek e Jens, dicevo, posseggono una bella guida aggiornata ed implementata in tempo reale attraverso internet, pertanto è consuetudine che, la sera prima, ci illustrino con dovizia di particolari, ciò che saremo chiamati a fare il giorno successivo: c’è qualcosa che mi sfugge in questo rito, ma non riesco ad afferrare bene cosa sia.

Poiché la mia guida risale al 2008,è buona giusto per snocciolare nomi di paesi e cittadine come un rosario ma nulla più e quindi nemmeno mi prendo la briga di consultarla; Francesca no, non ce l’ha proprio la guida e Teresa ha solo il Sacro Vangelo (la mia unica Guida!).

Roberto si ricorda vagamente di aver dimenticato la sua nel bar dell’aeroporto di Bologna.

Insomma, il giorno successivo partiremo, come sempre alla spicciolata, verso una destinazione studiata con rigorosa e maniacale pianificazione mitteleuropea, in un’uggiosa mattinata di pioggia così fina che pare spruzzata con un nebulizzatore: presto diventerà temporale, rovescio e poi ancora pioggerella: la temperatura, con i suoi cinque gradi, è decisamente invernale.

Il Cammino è bellissimo, tra boschi e vegetazione: si sale lungo pendii che di tanto in tanto si aprono in scorci suggestivi sulla vallata, anche se limitati nella loro esuberante bellezza dalla foschia dovuta al maltempo che non ci molla un attimo.

Ogni tanto ci incontriamo, facciamo un po’ di strada assieme e poi, ad elastico come sempre, ci perdiamo di nuovo per rincontrarci ancora più avanti.

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Sarebbe una tappa interessante dal punto di vista naturalistico, ma la pioggia ed il freddo non me la fanno apprezzare: sono bagnato fino alle ossa ed ho capito che il mio poncho ormai è inservibile: dopo otto anni di onorato servizio, ha perso la sua impermeabilità e non è più buono a nulla: sarebbe più efficace un sacco dell’immondizia ed io mi sentirei il contenuto più adatto!

Ho freddo, e quando ho freddo inizio ad essere nervoso ed antipatico, specie se (a parte una lunga sosta al bar di Kalbario) non riesco ad individuare nessun posto dove potermi un attimo riscaldare o semplicemente sedermi a riprendere fiato: chi mi conosce bene sa che se non ci sono almeno trenta gradi ed un sole sparato a palla di cannone, il sottoscritto non cammina volentieri e diventa intrattabile.

A proposito di Kalbario: dopo aver consumato un cafè con leche ed una vassoiata di biscotti, mi sono seduto fuori a fumare e a chiacchierare con Francesca e come sempre ci perdiamo in discorsi che richiederebbero ben più di una sosta veloce.

Fatto sta che escono dal bar Jens e Roberto (gli altri sono indietro) e ci mettono fretta perché il tempo,secondo l’oracolo meteorologico, peggiorerà ulteriormente.

Sai quelle cose fatte un po’ senza pensare?

Francesca corre a prendere lo zaino dentro al bar, se lo carica sulle spalle ed in tre secondi è già pronta ad andare, io per riflesso condizionato faccio altrettanto ed ancora con la sigaretta tra le labbra (vabbè … era la seconda) siamo di nuovo in cammino, sempre con la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa, in questo strano balletto, che non mi riesce di mettere a fuoco.

Lungo la strada perdiamo Roberto e Jens e proseguo fino a Markina in compagnia di Franci: il freddo e la voglia di arrivare, mi mettono le ali ai piedi e per una volta, sarà lei, miss piè veloce, principessa di Katmandù, “Colei Che Cammina Come Se Avesse Lasciato L’Arrosto Nel Forno”, a dover stare al mio passo!

“Azz… Franci!” Urlo battendomi una mano in fronte:

“Non ho pagato la mia consumazione al bar di Kalbario!”

Lei con la sua voce calma e lieve come un sussurro:

“Vorrai mica tornare indietro? Siamo quasi arrivati a Markina!”

No, non tornerò indietro, ma questo pensiero mi assillerà per tutto il giorno: quell’essere partiti in fretta e furia come dei ladri che hanno appena fatto saltare uno sportello del Bancomat!

E questo è il risultato: una figuraccia internazionale con la gentile ed amabile barista di Kalbario!

La discesa che ci aspetta sarà ripida e con l’asfalto reso viscido dalla pioggia, ma non accenniamo a rallentare: sotto di noi il paese di Markina:

“Voi fate come volete e proseguite fino al monastero: io mi fermo qui!”

Le dico senza possibilità di recedere dalla mia decisione e mentre lo dico, non so perché … mi sento come se mi fossi liberato da un macigno che mi pesava sulla schiena: misteri della psiche …

Lei comunque fa cenno di si con la testa, nella granitica certezza (ne siamo sicuri?) che la famiglia operi sempre le proprie scelte individuali in assoluta libertà.

Arriviamo alle porte del paese, dove,superata di pochi metri una chiesetta insignificante, appare di fronte a noi un bel porticato antico: Franci ed io ci ripariamo sotto quel dono di Dio senza neppure averlo concordato.

Mi tolgo il poncho inservibile e batto i piedi a terra per tenermi caldi i muscoli delle gambe:

“Aspettiamo un po’ se arrivano gli altri, così non ti lascio sola”.

Francesca ci pensa un attimo:

“Ma lo sai, Raul? Quasi quasi mi fermo anch’io!”

“Bene, riposiamoci un attimo in attesa degli altri e poi andiamo a cercare un albergue”.

Una voce dall’altro capo del porticato:

“ Se vi serve un albergue, vi posso aiutare: sto aspettando l’hospitalera di un rifugio qui a Markina, che,essendo un po’ fuori dal Cammino, ci viene a prendere in macchina”.

Così facciamo la conoscenza di Pedro, uno spagnolo di Madrid che parla un ottimo italiano.

“Quando arriva (starà a momenti), le parlate e sentite se ha posto”.

Mi attacco al telefono e chiamo Jens:

“Ho trovato un albergue qui a Markina: Francesca ed io ci fermiamo, voi che fate?”

Jens è in difficoltà: sta letteralmente sorreggendo Roberto che non riesce più a camminare a causa di un dolore fortissimo ad una gamba.

Stanno andando pianissimo e quindi mi prega di prendere posto anche per loro.

Anche Teresa e Derek sono arrivati e ,nonostante Teresa sia rattristata dalla decisione di non proseguire per il monastero, credono entrambi che sia meglio fermarsi qui.

All’arrivo dell’hospitalera (una donna molto energica ed allegra) chiedo se ha posto per sei e mi risponde affermativamente.

Le spiego la situazione e mi dice di non preoccuparmi: quando gli altri arriveranno, basterà telefonarle e lei verrà a prenderci.

Teresa e Derek vanno via con Pedro e con l’Hospitalera, mentre Francesca decide di aspettare assieme a me.

Arriveranno molti pellegrini alla spicciolata e la macchina per l’albergue farà ancora molti viaggi.

Noto che qualsiasi pellegrino loda la bellezza e la particolarità di questa insignificante chiesetta di fronte: dopo l’ennesimo commento entusiasta, Francesca ed io decidiamo di entrare più per la curiosità che per un effettivo desiderio di vedere cosa ci sia di così speciale: il risultato è ciò che tentavo di descrivere all’inizio di questo raccontino!

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Usciamo dalla chiesetta dopo un tempo che non saprei definire: adesso vista da fuori, pare che le sue mura mi suggeriscano di non dare mai niente per scontato, perché anche dietro a delle mura anonime, può nascondersi qualcosa che non ti aspetti, e questa regola vale per le mura, quanto per le persone o per le strade o per le città … insomma, è una regola generale!

Ancora sotto al nostro ricovero “di fortuna” aspettando i nostri amici: l’umidità nelle ossa è indescrivibile e non mi vergogno più a battere i denti senza ritegno: tiro fuori dallo zaino qualsiasi cosa mi possa coprire,ma ormai il freddo si è impossessato del mio essere.

Aspetteremo oltre un’ora e quando finalmente Roby e Jens arrivano, il bolognese si lascerà andare ad un pianto dirotto, liberatorio.

Lo abbracciamo e cerchiamo inutilmente di consolarlo: dice che ha un dolore insopportabile ed in effetti ha la gamba gonfia.

Continua a ringraziare Jens tra le lacrime: lo facciamo sedere e la parte materna di Francesca, cerca di calmarlo mentre chiamo l’hospitalera che sarà lì in dieci minuti.

“L’oceano è pieno perché i bimbi piangono/L’oceano è pieno perché tutti piangono”.

(Ensi, “Tutti Contenti”)

Sicuramente è tendinite e domani Roberto farà (c’è voluto del buono per convincerlo!) la tappa in autobus fino a Guernika.

Io mi sveglierò con un raffreddore che non mi mollerà fino alla fine del Viaggio, che la salute è meno stabile di quelle gigantesche uova dentro alla chiesetta: e comunque continua a sfuggirmi qualcosa …
 
27 Aprile, Markina-Gernika. 20 Km.

Il 26 aprile 1937, all’apice della Guerra Civile Spagnola, Gernika fu bombardata dalla Legione Condor dell’aviazione tedesca (coadiuvata da uno stormo dell’Aviazione Legionaria italiana), al fine di piegare la Repubblica Spagnola democraticamente eletta nelle terre del nord.

Gernika si, fu letteralmente “spianata” e perirono a centinaia, in una vera e propria pioggia di bombe e fiammate di fosforo. Quel bombardamento fu il primo vile attacco contro una città inerme e contro i suoi figli. Come pure fu un prologo di future tragedie che culminarono nella distruzione totale di città come Dresda o Hiroshima.

Gernika fu una specie di “prova generale” in quella che sarà la folle rappresentazione che andrà in scena, nel Teatro della Seconda Guerra Mondiale.

Gernika fu l’agnello sacrificale.

Gernika fu la tomba della democrazia in Spagna per i prossimi trentasette anni.

Gernika fu l’inizio della buia e feroce dittatura franchista.

Uomini come Luis Iriondo mi lasciano sempre senza fiato. Aveva quattordici anni il 26 aprile del 1937 quando i bombardieri tedeschi e italiani scesero su Guernica per stuprarla a colpi di bombe, per innaffiare le strade di fuoco, di esplosivo e di ferro: un cimitero di civili, un grido straziante che Picasso fissò sulla tela. Lo incontro vicino alla chiesa di Santa Maria. Si è salvata dalla distruzione, i «moros» di Franco la usarono come accampamento dopo la «reconquista», poi le donne di Guernica dovettero ripulirla in segno di umiliazione.



Luis è un sopravvissuto, parola terribile del Novecento. Bisogna esser folli per credere, dopo aver vissuto il primo bombardamento terroristico della Storia, credere ancora nel potere dell’uomo sul suo destino. Sperare in una vittoria dello spirito sulle forze del male, credere in dio, credere nell’uomo e in una riconciliazione tra loro. E invece Luis comincia a raccontare e la muraglia sembra meno alta, meno invalicabile. D’un tratto tutto diventa presenza, tutto diventa semplice, vero, possibile. Significa che non siamo soli e vinti, che le forze disperse si riuniscono, sempre, da qualche parte.



«Era una bella giornata come oggi, il cielo chiaro, pregna di umidità e di fermenti. Era lunedì, il giorno del mercato, dicevano l’avrebbero sospeso, la guerra si avvicinava, ma la piazza era piena di contadini e di bestie. Il mercato per noi di Guernica era la festa, al pomeriggio c’era la partita di pelota ...

(Domenico Quirico)


Il resto della vicenda, purtroppo, lo sappiamo.


Non posso sostituirmi al racconto di Luis,non c’ero: tutto ciò che posso fare oggi,il giorno successivo all’ottantesimo anniversario dell’eccidio, è affacciarmi in silenzio dal balcone della Storia e rendere omaggio a Gernika come posso.

Entrerò in punta di piedi nel Museo,nella chiesa di Santa Maria, al Memoriale o davanti al murales più famoso del mondo, a titolo personale e di coloro che non hanno la possibilità o la voglia di andare, di capire, di parlarne.

Affinchè nella coscienza collettiva, questa pagina triste divenga un “Mai Più” grande come il dolore che è passato attraverso questo lembo di terra basca.


Senza la Memoria saremmo ottusi come cinghiali.


Fa freddo a Markina, quando la Famiglia si muove per una volta unita, escluso Roberto che sta male con quella gamba e ci raggiungerà in bus.

Anche ieri sera abbiamo un tantino esagerato col cavatappi, ma insomma manco tanto, giusto per combattere la nottata decisamente invernale,nottata che ci ha regalato perfino una spruzzata di neve, lì, in collina: l’inverno che non vuole morire e cerca di vendere cara la pelle.

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Sento qualcosa di molto duro premere sulla mia schiena quando ho lo zaino indosso: scopro che il mio nuovo Forclaz (ho alienato il mio storico mammozzone verde acido per motivi che non sto qui a spiegare) ha un’anima di … cartone (si, cartone!) che con tutta la pioggia presa ieri si è inumidito ed è collassato su se stesso: adesso si è asciugato ma ha assunto una forma strana, con un angolo che non posso più modificare e che mi preme forte sulla schiena facendomi vedere i sorci verdi.

Quella dei “sorci verdi” prende il nome da una squadriglia aerea che aveva uno stemma con dei topi di quel colore disegnato sulla coda dei suoi velivoli da combattimento: i componenti della squadriglia erano davvero molto abili e chiunque avesse a che fare con loro durante la battaglia, vedeva “davvero”… i Sorci Verdi!

Da qui il detto.

Ed al netto della curiosità storica da “Settimana Enigmistica”, il mio zaino era diventato davvero un problema.

Un vero problema!

Arriviamo al monastero per la gioia di Teresa: facciamo foto e chiacchieriamo con i frati: lei intona come è suo costume, un canto di chiesa rigorosamente e come da copione, in latino, per la gioia e la sorpresa dei monaci.

Noi ormai non ci facciamo più caso.

Il posto è davvero bello ma ringrazio la sorte per aver dormito in un albergue confortevole e soprattutto abbastanza riscaldato!

Proseguiamo assieme fino a Muntibar: Francesca ed io decideremo poi di continuare per la carretera (non la lasceremo più fino a Gernika) perché il fango nei sentieri è davvero eccessivo. Derek, Teresa e Jens, proseguiranno in ordine sparso per il tracciato “ufficiale”.

Franci vorrebbe saperne di più sulla vicenda che ha contraddistinto la cittadina che si appresta ad ospitare i nostri passi pellegrini ed io cerco di raccontarle quello che so, come lo so, come l’ho letto.

Non sono uno storico e comunque non volevo diventare troppo pedante: odio chi in Cammino riempie la tappa di parole su argomenti monotematici, siano essi interessanti o di infima importanza (ho camminato con uno che per tre ore è riuscito a massacrarmi le orecchie sul “cosa si dà da mangiare ai pesci rossi”, alla fine ho dovuto sopprimerlo e seppellirne sommariamente i resti al bordo della strada); non amo il soliloquio perché il Cammino non è fatto per questo genere di esercizi dialettici.

Il Cammino dovrebbe invitare soprattutto alla riflessione.

Ho lasciato pian piano cadere il discorso ed abbiamo camminato in silenzio per un po’, solo il rumore del vento incessante che ci fischiava nelle orecchie.

Ma con la coda dell’occhio, la vedevo che rimuginava, pensava elucubrava … ad un certo punto torna sul l’argomento per chiedere lumi o delucidazioni su qualche particolare:

“Fra, vai su internet e cerca! Mica posso dirti tutto io!”

Le suggerivo tra il burbero e il divertito alzando gli occhi al cielo.

“Ma tu sei anarchico,vero?”

“No, sono aretino!”

Ridevamo.

Ci fermiamo in un bar a fare colazione ed a ripararci un po’ dal freddo, onestamente non ricordo che paese fosse: Francesca si ferma in edicola a comprare un giornale con l’inserto sulla storia di Gernika.

Mi sono sentito sollevato, credevo di averla annoiata ed invece …

La sosta al bar sarà velocissima: un nauseabondo tanfo di urina stantia pervadeva il piccolo locale: d’altronde avevamo bisogno di un cafè con leche e non siamo andati troppo per il sottile.

Forse anche questo è Cammino.

Ed eccola lì, Gernika, proprio davanti a noi distesa sulla base della collina: non posso fare a meno di pensare come sarebbe dovuta apparire esattamente ottant’anni fa agli occhi di un viandante, da qui, da questa stessa posizione.

Fumo nero, macerie, ancora fiamme sparse un po’ ovunque e,non udibili da qui, urla,pianto rantolare di uomini ed animali feriti, o forse un silenzio spettrale, solo il sibilo di un vento maligno come quello che ci sta tagliando il viso in questo momento: ho il cuore che mi si stringe in petto.

Procediamo ancora per un’oretta senza parlare, fino all’entrata della cittadina, dove apparentemente la normalità è il filo conduttore delle cose: auto che vanno, donne con la spesa del supermercato, bimbi che giocano nel piccolo parco alla nostra destra, quello che ci separa dall’albergue.

Vita normale, cose abitudinarie, un camion che passa col suo carico, una ragazza in bicicletta, due vecchi che si raccontano chissà cosa appoggiati al loro bastone da passeggio, un cane randagio che fruga tra gli avanzi nel cortile, le tendine di pizzo alle finestre delle case.

Alzo gli occhi e guardo il cielo, terso come quel lunedì di fuoco e non posso fare a meno di sentire il rombo delle squadriglie che arrivano da nord in tornate successive.

Proprio come oggi, proprio come se fosse adesso.

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Regalo i miei passi odierni alla città di Gernika, pellegrinaggio nel pellegrinaggio, viaggio nel Tempo, nella Memoria e nel Dolore: tengo alta nella mia immaginazione la bandiera che riveste per me un significato assai importante, perché Santiago in questo momento è lontana ed il mio Cammino di oggi non ha altro scopo che il raccoglimento di fronte alla Storia.

Non è cambiato molto, purtroppo, e la lezione non è servita a nessuno perché ho in mente altri nomi,Aleppo ad esempio: tra ottant’anni un qualche pellegrino idealista ed illuso, camminerà sulle strade di una città ricostruita con il cuore gonfio ed un monito nella testa:

“Mai Più!”

Mentre in un’altra Aleppo o Gernika, chiamatela come volete, un gruppo di fanatici macellai raderà al suolo altre vite.

Nelle strade della città ricostruita, tra altri ottant’anni , due scemi con lo zaino che ancora non sono nati pronunceranno probabilmente la frase:

“Mai Più!”

Mentre in un’altra città …

E così all’infinito.

Mai” è una parola ingannevole e bugiarda, esattamente come la sua sorella gemella “Sempre”.

Con questo spirito, visiterò Gernika e le sue cicatrici.

Con questo spirito pensavo ad un altro Cammino, quando i miei passi sul Sentiero verso Saragozza, lambivano la città fantasma di Belchite: non l’ho visitata personalmente, ma le foto che ho visto su internet, mi rimbalzano nella testa come palline da tennis. (Dateci un’occhio se vi va e capirete il perché).

Con la certezza che “Mai più” non esista, con la speranza che a furia di passare attraverso gli sbagli ed il tempo, queste vicende diverranno un ricordo.

Non ci credo molto, comunque.

Di fronte a tali eventi, le nostre piccole storie di Cammino sono facezie che rappresentano poca cosa:

tipo quella che stasera sarà l’ultima sera che la folle, colorita, ridanciana, pazza,allegra ed alcoolica Famiglia, si riunirà tutta assieme davanti alle solite “enne bottiglie” di Rioja: Gernika rappresenta un addio anche per noi, ma questo ancora non lo possiamo sapere, poichè esattamente come gli aeroplani da nord, il Destino arriva inaspettato.

A volte in forma di tragedia, fortunatamente nel nostro caso, arriverà e basta.


“Bellissima questa Opera”

Disse l’ambasciatore tedesco che con il proprio seguito ammirava il murales “Gernika”,al museo del Prado, accompagnato nella visita da Picasso in persona.

“Lo ha fatto lei, certamente!”

Chiese l’ambasciatore.

La risposta dell’artista fu lapidaria:

“No ambasciatore: lo avete fatto voi!”

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28 Aprile: Gernika-Bilbao. 40Km

L’impresa si sta rivelando più complicata del previsto: si tratta di sistemare, spianare, domare,rimodellare e ridurre a più miti consigli, l’anima di cartone che funge da disgraziata struttura dello zaino! Mi sto cominciando a vergognare di questo acquisto, un po’ come quando da ragazzini preadolescenti, volevamo ordinare gli occhialini “a raggi x” per guardare ciò che promettevano di far vedere … si, dai … nell’ultima paginetta dei Diabolik c’era quella orribile pubblicità … ecco … mi vergogno solo per averci pensato, a comprarli … non riesco nemmeno a dirlo … e così è per questo zaino: la vergogna di tirarmelo dietro, di aver preso una fregatura … tanto gli occhialini non funzionavano mica … insomma, mi sto incartando!

Incartando col cartone dello zaino: mi sto prendendo in giro da solo!

Mi sento come se l’avessi scritto in faccia, che mi hanno rifilato uno zaino di merda.

E’ come indossare gli occhialini a raggi x!

Insomma, una cosa di cui non essere fieri.

L’ho svuotato completamente per poterci discutere con franchezza, ma nonostante i miei tentativi di averne la meglio, quello riassume la sua posizione assurda non appena smetto di applicare qualsiasi sollecitazione su di esso.

Ci vorrebbe un esorcista!

Il peso del contenuto, ha reso quel foglio inumidito dalla pioggia una specie di organetto ed al pari della cartapesta bagnata, una volta seccatasi di nuovo, hai voglia a pestare: organetto è ed organetto rimane!

Almeno fosse buono da suonare …

Non c’è speranza: lo riempio di nuovo e me lo carico così com’è: una vertebra (sempre quella!) scricchiola non appena stringo la cinta in vita; faccio finta di non aver sentito, prendo la porta dell’albergue, e me ne vado.

Il freddo sembra voler darmi una tregua: l’aria è frizzante ma il cielo mi promette che porterà il sole,mentre il vento pare essersi stufato di se stesso oppure ha deciso di infastidire i pellegrini di un’altra tappa!

Ieri sera Derek (tocca sempre fare molta attenzione, perché “il Saggio” ha questo strano modo di arrotare le consonanti e parla come se avesse appena dato un generoso morso ad un panino col prosciutto cotto) ci ha illustrato la tappa odierna e come al solito, nessuno ha avuto niente da obiettare.

La nostra destinazione sarebbe stata Bilbao, come sempre “ognuno per se e Dio per tutti”, tranne Roberto che ci avrebbe raggiunto in autobus: appuntamento all’albergue juvenil che è già stato prenotato per sei.

Non ho ancora visto nessuno dei ragazzi e non so se siano avanti o stiano ancora dormendo, so che prima o poi, alla spicciolata, avremo modo di bere un caffè insieme e fare due chiacchiere, quindi non mi preoccupo ed inizio a camminare.

Percorro tutta la città fino a trovarmi alla base di una collina ed un tratturo in ripida salita mi suggerisce di prendere fiato e rimboccarmi le maniche: senza pensarci, dò una scrollata alle spalle per sistemare meglio il peso sulla schiena ma è un gesto del quale mi pentirò subito: ho appena assestato un colpo di dura cartapesta alla “quinta lombare” … forse la terza … insomma, quella che mi sta maledicendo in questo momento!

Prendo la guida, la sistemo come un cuscinetto tra schiena e zaino, ed affronto la salita ricamando pensieri non esattamente amichevoli nei confronti di chi ha realizzato e messo in commercio questa porcheria con gli spallacci.

In cima alla collina il tratturo spiana e diventa pista d’asfalto, poi passato un cancello attraverserò un bel pascolo verde smeraldo ed infine ancora asfalto fino a Goicoetxea, dove mi concedo un cappuccino bollente per cercare di combattere il raffreddore e scioglierne gli umori cattivi.

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Riprendo il mio viaggio attraverso paesi (alcuni anche molto graziosi) di cui non ho memorizzato il nome; molto asfalto, tutto in pianura, varie indicazioni di albergues, non ho esattamente la cognizione del tempo passato e dello spazio percorso, perché so di dover arrivare a Bilbao e tanto mi basta.

D’altronde man mano che procedo, tutto intorno a me sembra suggerire che sto attraversando la periferia della grande città: gli innumerevoli autobus metropolitani che hanno preso il posto delle corriere a lunga percorrenza, i primi sono bicolori, bianchi,lilla, allegrissimi e sono ridondanti di pubblicità; i secondi sono tristemente azzurro carta da zucchero o avanino-giallognolo “color cacca di neonato” e con l’improbabile nome della ditta sulla fiancata: c’è una bella differenza!

E poi la frenesia degli abitanti, così diversa dal procedere senza fretta tipico delle zone rurali, e poi gli aeroplani che mi sfarfallavano sulla testa a bassa quota,già in configurazione di atterraggio, per poi sparire dietro la collina e poggiarsi sulla pista dell’aeroporto … insomma, tutto mi faceva pensare che Bilbao fosse dietro l’angolo e la mente si è rilassata passando dalla modalità “Tappa” alla modalità “Birretta”.

A quel punto per me è automatico: scema l’adrenalina, le gambe si fanno più molli, la mente meno attenta ed il fisico si rilassa.

Manca poco ed anche per oggi è fatta: doccia, bucato passeggiata,aperitivo, cena … insomma, quelle cose lì.

Non so nemmeno che ore siano e non ho fatto caso alla collina che avevo di fronte a me, ho imboccato il sentiero che mi suggeriva la freccia ed ho iniziato a salire.

Stranamente non ho incontrato nessuno dei ragazzi e questo non era mai accaduto, almeno fino ad adesso.

Comincia a fare caldo perché il sole è alto e la salita sempre più dura: credevo di essere quasi arrivato ed invece …

Mi siedo ansimante ed accaldato,la scorta d’acqua finita ormai da un pezzo e per la seconda volta (due volte nella stessa tappa: praticamente un record!) metto mano alla guida usandola per la ragione secondo la quale è stata concepita e non come un cuscinetto tra schiena indolenzita e zaino di scarsa qualità!

Non voglio credere a ciò che la guida ha da dirmi: il paese che ho lasciato, si chiama Zamudio e per raggiungere le porte di Bilbao, mancano almeno dieci chilometri!

Senza contare che l’albergue è dalla parte opposta di una estesissima e fottutissima città!

Se non fossi stato seduto, mi si sarebbero piegate le ginocchia!

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Sono “scarico” perchè in modalità “Quasi arrivato”: sarà dura resettare la testa, perchè praticamente manca un’intera tappa!!!

Convinto che per oggi sarebbe bastato …

Guarda in che stato …

tutto sudato …

sono sdraiato …

me lo sono meritato!

Perché mi metto a pensare e scopro che cosa mi sfuggiva in questi giorni: mai, dico mai, ho soppesato la pianificazione di Jens e Derek: loro dicevano “Oggi si va qui” e nessuno aveva nulla da replicare!

Oddio, ti rendi conto che in tutto questo tempo non hai mai consultato la tua guida per avere un riscontro di ciò che ti veniva proposto?

Siamo sempre andati a rimorchio di coloro che avevano già settimane di Cammino nelle gambe e quindi erano allenati e ragionavano al loro ritmo.

Abbiamo sempre seguito acriticamente l’anziano che aveva già un biglietto aereo in tasca con una data precisa e la fretta di tornare a casa a collezionare francobolli, ed il giovane che aveva le ali al posto dei piedi e zero intenzioni di mollare colui che dettava il passo!

Noi dietro come pecore!

Roberto addirittura con la tendinite!

Io che mi scopro stupito (e stupido!) a dover fare oltre 40 chilometri senza averne avuto sentore!

Perché non essersi fermati a Lezama?

Perché due tappe in una?

Perché arrivare a Bilbao nel tardo pomeriggio senza avere la possibilità di visitare la città?

Perché sono stato così sciocco da non averci pensato?

Risposta: perchè sono un c0glione!

Stanno compromettendo il Cammino di Roberto, i due “capifamiglia” … io mi trovo in cima ad una montagnola senza forze a sacramentare contro la mia stoltezza: anche il mio Cammino sta per essere compromesso?

Senza dubbio la tappa si, e adesso pago il conto del mio pressapochismo.

Raccolgo le forze e con le gambe rese pesanti da una fatica più mentale e morale che non fisica, procedo lentamente in direzione di Bilbao scendendo la collina attraverso un camping fino ad una ripida discesa che mi conduce ai bordi della città: adesso si tratta di attraversarla per intero (vista dall’alto appariva decisamente grande!) e poi risalire una collina dalla parte opposta fino all’albergue Juvenil.

Ma si può? Sono furioso con me stesso, anche con loro, ma soprattutto con me stesso!

E’ in quel momento che apro gli occhi e dico:

“Ferma, Raul! Sei uscito dai binari: questo non è il tuo Cammino!”

Mi viene in mente di fare “la prova del nove” e mando un messaggio wassap sul forum della mia “pazza famiglia pellegrina”:

“Sono vicinissimo a Bilbao …”

Erano ormai le quattro del pomeriggio.

“Domani possiamo fermarci a Portugalete? Sono sfatto e quindi vorrei una tappa breve: che dite?”

La risposta non si fa attendere; è ovviamente Derek che sentenzia nel silenzio generale di tutti gli altri:

“Domani Pobeña”.

Così, laconico e senza possibilità di compromessi.

Ma è così che si usa fare in una famiglia?

E’ così che funziona?

Ormai è chiaro: Derek e Jens hanno in testa il loro Cammino e non c’è spazio per alcuna deroga da parte degli altri.

Taglio in due la città rabbuiato e dispiaciuto, ma al tempo stesso felice di aver trovato la chiave del “cosa mi sfugge” ed il Destino a questo punto, mi riserva il colpo di grazia: confondo l’albergue Juvenil con l’albergue “de Peregrinos” ed invece di recarmi al primo, raggiungo erroneamente il secondo.

Nel tentativo maldestro di accorciare la strada,ed evitare i tornanti della collina, mi trovo costretto ad affrontare una lunga scalinata che, dopo oltre quaranta fottutissimi chilometri, si rivelerà fatale per le ginocchia: 305 scalini saranno la punizione per la mia stupidità, per aver seguito come una pecora invece di rendermi conto personalmente di come si sarebbe sviluppata la tappa.

Come per lo zaino di cartone, come per gli occhialini a raggi x, ancora una volta mi tocca vergognarmi!

Ma come ho fatto a lasciarmi trasportare per quaranta e passa chilometri come un deficiente?

Sono furioso!

Arrivo finalmente in albergue proprio quando squilla il cellulare: era Roberto.

“Dove sei?”

“Ciao,bandito! … Che ti sei perso, stavolta?”

“Ah … si … ho lasciato i bastoncini nell’albergue di Gernika.”

Lo dice con lo stesso coinvolgimento emotivo di colui che chiede due etti di provola al salumiere.

Evito di commentare, non saprei davvero che dire: sul volto disegno una smorfia di rassegnato assenso e credo che a Jens stavolta verrà meno da ridere: i bastoncini che Roby ha usato da tre giorni a questa parte, erano i suoi!!!

“Sono in albergue”.

Mi limito a dire.

“Non ti vediamo …”

Parlando si chiarisce l’equivoco: non sono al juvenil, ma in quello dei pellegrini.

“Stiamo andando in città, ti aspettiamo?”

“No, Robe’… lascia stare: stasera sono stanco e resto qui. Ci vediamo domani!”

Dentro di me so per certo che sto mentendo: non ci vedremo domani ne’ dopodomani.


Non vedrò più nessun componente della Famiglia, perché ho da riprendere in mano il mio Cammino e non da seguire quello di chi pianifica per tutti e poi sono un tantino stufo di stravizi notturni!

E’ una lezione e l’ho imparata: è servita una scalinata infinita per suggellare la mia dabbenaggine ma adesso ho capito.

Loro andranno a Pobeña, io a Portugalete: da quel momento in poi, farò in modo che siano sempre “un passo avanti” rispetto a me.

Mi mancherete, amici, ma tutto ha un epilogo e questo è il nostro.

Continueremo a sentirci e mandarci foto con wassap, per scoprire che Teresa l’indomani stesso deciderà di prendere un autobus da Bilbao per raggiungere il Cammino Frances (“Su questo Cammino del Norte manca il volto di Gesù!” Scriverà sul nostro forum.)

Roberto perderà presto il contatto con gli altri, arrancando con lenta determinazione sulle sue Crocs, tra tendiniti e mezzi pubblici e probabilmente continuando fino alla fine a seminare lungo la strada effetti personali.

Francesca si fermerà a Santander da dove prenderà un volo per tornare a riassumere il mondo nei suoi pasticcini alla frutta,mentre il vecchio Derek ed il giovane Jens, seguiranno il programma a tappe forzate imposto da colui che veniva chiamato senza troppa convinzione, “il Saggio”.

Come dicono loro.

Come vogliono loro.

Come piace a loro.

Nelle foto che continueranno a mandare, il copione sarà sempre lo stesso: il giovane Jens davanti a scattare il selfie collettivo, in mezzo facce sempre diverse ed a chiudere il quadretto, sempre un po’ in disparte, il vecchio tricheco.

Non so … quelle foto vorrebbero suggerirmi qualcosa che non riesco a focalizzare, ma non ha importanza.

Adesso non ha più importanza.

E comunque mi mancherete,pazzi squinternati che altro non siete: è stato bello essersi incontrati ed aver condiviso riso, pianto,pensieri, scherzi, allegria, tristezza, a volte rabbia e … fatto saltare tutti quei tappi di sughero dalle bottiglie: sento il mio cuore sollevato, ed il mio fegato congratularsi commosso per la decisione presa.

“Fuori è chiaro anche se è notte e ci sarà la neve
Io me ne sarò andato svelto senza dire niente
Nelle orecchie non ho più il suono delle sirene
Tira piano il fumo passa dalle tapparelle
Non discuto con la gente, vuole informazioni
Io non sono l’anagrafe, non li faccio i nomi
Prego il cielo mentre fumo, vedo arcobaleni
infatti Dio sa che ne ho combinate di tutti i colori
E so che...
Il cielo farà il suo dovere
Trankilo va tutto apposto
Come scorre un fiume di parole
Falle scivolare e sarai superiore
Il cielo farà il suo dovere
Trankilo va tutto apposto
Ieri mi sentivo perso
Ora è diverso, oggi mi sento bene”


(Vegas Jones, ft. Nitro: “Trankilo”)
 
29 aprile: Bilbao-Portugalete. 16Km

Questo mio Cammino è diviso idealmente in tre parti:

La prima è quella spensierata e ridanciana che si è appena conclusa.

La seconda sarà più “contemplativa” e meno zuzzurellona: inizia giusto adesso e vedrà il suo epilogo lasciando Llanes.

Poi ci sarà la terza ed ultima, decisamente la più “interiore”, la più legata ai capricci complicati di un’anima bizzarra,la mia.

Trovo affascinante questo cambiamento di stato, questa sublimazione; l’animo umano come un cielo terso dove appare una nuvoletta bianca, che poi diventa uno scuro cumulonembo ed alla fine si tramuta in pioggia che dilava ogni cosa e rende nuovamente il cielo azzurro come il primo giorno.

In un ciclico “eterno ritorno nietzschiano”.

Il Cammino come palestra dell’anima.

In un allenamento che non è ancora finito.

Non lo sarà mai.

E quindi toccherà caricarsi di nuovo lo zaino e ripartire.

Eterno Ritorno.


“ … oggi che non ho più bisogno a tutti i costi della felicità,

perché ovunque mi sposti è solo un passo più in là, solo un passo più in là”.

(Raige, “Addio”)



L’aria è ancora frizzante quando attorno alle otto lascio l’albergue: essere andato a dormire molto presto, mi ha ritemprato il corpo e la mente. Sento che tutto è in armonia, oserei dire perfetto.

Anche se il raffreddore non mi dà tregua e lo zaino di cartone sbatte sulla vertebra assestandole una martellata ad ogni passo, sono sicuro che è comunque tutto perfetto: tra poco il sole comincerà a scaldarmi con il suo tepore primaverile.

Mi rallegro per aver superato già ieri la collina che rappresenta il termine ovest della città di Bilbao e vado a passo spedito lungo una strada asfaltata piuttosto pianeggiante.

Molti saltano questa tappa perché dicono che è noiosa,che passa nella periferia industriale e “bla bla bla”: io dico che è Cammino e tanto mi basta!

Ben presto le frecce mi invitano a lasciare la strada verso un tratturo in discesa sul quale mi faccio largo tra un gregge di pecore “tagliandolo a metà” al mio passaggio, come un novello Mosè sul mar Rosso: parrebbe una scorciatoia che mi riporta in strada proprio nel famigerato poligono industriale.

Salirò la ripida collina che porta all’ermita di Sant’Agata,calcando gli antichi lastroni medievali, uguali a se stessi da quattrocento anni, e poi giù,su asfalto, verso il deposito dell’acqua potabile, fino al paese di Barrakaldo.

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Mi regalo un’altra colazione e poi entro in farmacia a prendere una crema per i piedi: comincio a prendermi cura di me stesso come non avevo fatto fino ad ora ed il Cammino mi ricompenserà iniziando a prendersi cura di me.

Lungo il viale principale di Barrakaldo, una gentile signora che poteva avere un’ottantina d’anni, mi ferma e con il fare amorevole di una nonna, mi invita (quasi mi ordina, seppur con affetto) di non seguire le frecce perché mi avrebbero condotto verso un percorso assurdo e faticoso:

“Scendi per la via Garay (e prendi appunti, sennò ti scordi il nome!), attraversa il ponte e segui il fiume. E’ tutta in piano e molto più corta. Fa come ti dico, mi raccomando!”

La ringrazio ed accenno un inchino a questa vecchina dolce ma autoritaria al tempo stesso: lei mi regala un sorriso.

Le sono riconoscente, anche se una parte di me tende a non fidarsi delle sue indicazioni, perciò nel dubbio, apro la mia vecchia guida (per la terza volta in dieci giorni!) e ciò che ha da dirmi mi fa quasi trasalire:

“Il Cammino ufficiale vi proporrà un giro assurdo e faticoso. Scendete per via Garay,attraversate il ponte e seguite il fiume …”

Attonito mi volto per chiamare la nonnina e (il viale è lunghissimo e senza traverse a tagliarne il percorso e lei camminava a passo di lumaca, quindi non può essere lontana!) ringraziarla di nuovo mostrandole la mia guida che confermava (addirittura con le stesse parole!) il suo suggerimento.

La cerco con gli occhi ma inspiegabilmente non la vedo: è come se si fosse … volatilizzata!!!

Non sono avvezzo a credere in certe apparizioni che hanno del “soprannaturale”, ma questa cosa non mi lascia affatto indifferente: cerco con gli occhi questa vecchietta, faccio alcune decine di metri tornando sui miei passi, mi costringo a credere a ciò che vedo ed a dimenticare ciò che non vedo.

Mi ero ripromesso di tenermi ‘sta cosa per me, o tutt’al più condividerla solo a chi crede nelle magie del Cammino,ma io sono un pettegolo e le cose non me le so tenere: molto probabilmente la dolce nonna ha preso un autobus, che qui ne passano a grappoli ogni minuto.

Non sarà facile trovare la via Garay: l’unica iniziativa che ho preso è stata quella di ignorare le frecce per un paio di volte, lasciando il viale e proseguendo sulla destra.

Vedo una donna, un’ausiliaria del traffico intenta ad elargire multe alle macchine in sosta vietata per la gioia di ogni automobilista indisciplinato. Mi avvicino per chiederle la direzione:

“Mi scusi …”

Non mi lascia il tempo di finire la frase: alza gli occhi dal suo taccuino e attraverso occhiali da sole che rendono il suo sguardo imperscrutabile, credo che osservi di fronte a se il viandante, con un moto di sorpresa.

Il suo viso si illumina e si allarga in un sorriso radioso:

“Pellegrino!”

Mette in tasca il taccuino,si toglie gli occhiali e mi abbraccia: anche lei ha fatto il Cammino di Santiago, “due volte ma sul Frances perché questo è troppo duro”.

Mi racconta di lei e poi vuole sapere tutto sul mio viaggio (si dimentica di fare le multe, almeno per adesso ed anche questo non è cosa da poco!), le dico che anche io ho fatto il Francese e quindi vai coi ricordi, nomi, paesi, albergues … si sa come vanno queste cose!

“Cerco la via Garay perché dicono tutti che il Cammino ufficiale …”

La pellegrina vestita da vigile urbano conferma.

Proprio in quel momento passa un arzillo vecchietto che lei evidentemente conosce bene (Barrakaldo non è poi New York, più o meno penso che ci si conosca tutti).

“Don Manolo: aiutiamo questo amico?

Don Manolo si presta volentieri. Ci salutiamo con un “Buen Camino” ed un altro abbraccio, poi seguo Don Manolo (che ha il passo di un giovane a dispetto dell’età avanzata!) fino al punto dove dovrò traversare il ponte.

Oggi tutto è perfetto.

Ringrazio Don Manuel (non mi permetterei mai la confidenza di usare il diminutivo del suo nome)ed attraverso il viadotto che mi porterà al fiume: vedo il ponte. dovrò solo attraversarlo e seguire il fiume fino a Portugalete.

Mi tolgo la felpa perché comincia davvero a far caldo.

Mi incuriosisce una vecchia locomotiva in mezzo ad una piazzola: la fotografo.

Un vecchio signore di passaggio mi racconta la storia di quel rottame che serviva a trasportare i vagoni carichi d’acciaio dalla vicina fonderia al porto fluviale, mi indica dove è ubicato il vecchio altoforno:

“Sul tuo Cammino potrai vedere i canali dove passava l’acciaio fuso.”

Mi racconta una storia di monache e di una cassa con milioni di pesetas sepolta da chissà chi e ritrovata per caso in quella zona: non ho capito molto ma egli è fiero di rendermi partecipe della storia della “sua fonderia” e delle leggende che vi giravano attorno, così anche il passaggio nella zona industriale, si rivelerà un interessante viaggio nella storia e nella cultura locali.

“Dì una preghiera per me quando arrivi a Santiago!”

Mi saluta strappandomi questa promessa.

Oggi tutto è perfetto.

Continuo il mio Cammino in equilibrio con me stesso e col mondo: una coppia di mezza età a passeggio (pare che gli anziani del posto si siano dati in massa una specie di appuntamento lungo i miei passi), mi indica una deviazione ulteriore, senza che io avessi chiesto loro nulla:

“Inutile passare per Sestao: tra duecento metri scendi a destra …”

Oggi tutto è perfetto ed il fiume, l’amabilità di queste persone, il sole e persino un cane che mi trotterella a fianco sotto l’occhio vigile della sua bipede, mi condurranno a Portugalete.

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La cittadina è bellissima, il Ponte Colgante, suggestivo, la folla dei turisti mi fa allegria: devo solo trovare una pensiòn che l’albergue pare sia chiuso.

Ne individuo una che fa al caso mio: il proprietario fuori dalla porta a fumare:

“Finisca la sigaretta tranquillo: non ho fretta. Mi siedo qui e aspetto.”

“Il problema non è la sigaretta!”

Mi risponde incerto, quasi a non volermi comunicare una notizia sgradevole:

“Il problema è che la pensione è completa: la mia e tutte le altre, perché oggi è week end lungo … sai … il primo Maggio …”.

“… zzo, è vero!”

Mi si spegne il sorriso sulla faccia: ma non doveva essere tutto perfetto?

“Tranquillo”

Mi rassicura il mio interlocutore che pare leggermi nel pensiero:

“Qualcosa troveremo”.

Lì per lì non capisco, ma poi lo vedo intento ad armeggiare con un taccuino ed il suo telefono personale, fare una, due, tre, cinque, dieci telefonate a suoi colleghi per soddisfare la mia richiesta di alloggio.

Sono in imbarazzo:

“Ma no, non si disturbi …”

Tento di dire qualcosa, ma lui mi blocca con un gesto della mano:

“ Tu dormirai a Portugalete, pellegrino! Stai tranquillo”.

Oggi è tutto perfetto e quasi mi vengono le lacrime agli occhi da tanto mi ha regalato questa tappa in termini di umanità e gentilezza.

Con un sorriso raggiante e dopo un tempo che mi pareva infinito, mi porgerà un appunto con un nome ed un indirizzo: il mio alberghetto mi aspetta di là dal Ponte Colgante, nella cittadina gemella di Getxo.

Il fiume divide la cittadina di Portugalete da quella di Getxo,ma è solo una questione di nomi: quest’uomo ha mantenuto la promessa ed ha risolto col sorriso e la tenacia un problema che non era suo!

Lo ringrazio di cuore … in realtà non so come ringraziare … non so che dire...sento che oggi ho finito i “grazie” e non ho più parole adeguate per esprimere la mia riconoscenza.

Passo il fiume a bordo di questo strano vagone che fa la spola tra una riva e l’altra, appeso penzoloni ad un monumentale traliccio, in questa domenica di sole, divertito come un bambino mentre osservo addirittura le auto salirci sopra in file da due.

Oggi è tutto perfetto: mi mancano un po’ i ragazzi della Famiglia ma va bene così.

E’ tutto perfetto.

Buona domenica.

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30 Aprile: Portugalete-Castro Urdiales,30Km

Di buon’ora sono già fuori, appeso allo zaino ed al vagone di questo strano ponte, come ad un presente che continua a far la spola tra un passato dimenticato ed un futuro che non riesce a sbirciare oltre l’altra sponda di questo fiume.

Un presente infinito tra due sponde che dividono lo stesso agglomerato urbano che si pavoneggia nel puerile tentativo di sfoggiare due nomi distinti, come se uno di essi se lo fosse inventato per prendere le distanze da se stesso: Getxo alle spalle, Portugalete di fronte.

Passato e futuro della stessa esistenza,nell’intento di affrontare una salita ripidissima con un nastro di scale mobili che dovrebbero agevolarti nell’ascesa ma che a quest’ora, adesso, sono spente.

Passi lenti i miei, sotto ad un cielo che non promette nulla di buono ed un vento stizzoso che solleva la polvere del marciapiede.

Sono costretto ad indossare occhiali da sole per evitare al pulviscolo di ferirmi gli occhi e dietro a questi piccoli schermi neri, la luce incerta di un sole ancora assonnato, il mondo sparisce definitivamente.

Sono da solo sul viale di una città fantasma perché oggi è giorno di festa, “il ponte lungo del Primo Maggio” e non si va a lavorare, e chi sta in vacanza è ancora nel letto, e nel mezzo a questa umanità invisibile, il pellegrino.

Lui non è in vacanza ne’ al lavoro perché in entrambi i casi non ha nulla da festeggiare, ma resta sospeso su un eterno Ponte Colgante in un mondo ibrido senza nome e con un paio di occhiali da sole ad oscurare ancor di più, l’ultimo scampolo di notte ed il primo vagito del giorno.

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Nel mezzo, ai confini di un mondo del quale non fa parte.

Tra due sponde di un fiume.

Tra il giorno e la notte.

Tra lavoro e vacanza.

Tra città e campagna.

Tra luce de ombra.

Tra cielo e terra.

“Farfalle nello stomaco dammi l’insetticida
Voglio ridisegnare il mondo,dammi una matita

Voglio ridere come non avessi mai pianto
Voglio la luna e camminarci sopra come Armstrong …


… Portami sulle onde dell’oceano quando si alzano
Uccidimi e fammi risorgere come con Lazzaro …


… Questo mondo fa troppo chiasso
Io non sento più quello che penso
Quello che è peggio non ricordo più quello che ho perso
In un paese dove onesto rima con modesto … “


(Guè Pequeno, “Brivido”)

La passeggiata è all’inizio molto agevole, attraverso una bella pista ciclabile dal fondo rossastro, poi man mano sale e si perde su un’ascesa con dei tornanti che sono il paradiso dei cicloamatori e che il pellegrino taglia agevolmente attraverso i campi.

Il cielo appare più scuro di come lo immaginassi poc’anzi ed il vento continua a cantare la sua banale canzone tra le fronde di giganteschi platani, Gallarta mi accoglie con le prime gocce di pioggia e la salita si trasformerà in un dolce declivio fino alla spiaggia di Pobeña.

Peccato non poterla ammirare col buon tempo e magari farsi un bagno: mi limito a lasciare le mie orme sulla sabbia e ad osservare i surfisti che cavalcano le onde schiamazzando spensierati.

“… Portami sulle onde dell’oceano quando si alzano …”

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Alla fine della spiaggia, mi aspetta una lunga scalinata “spacca gambe” per raggiungere la cresta della falesia, ma il panorama che ne consegue e la bella passeggiata a picco sul mare,sono un premio più che adeguato alla fatica.

Sarebbe una parte di Cammino sublime, se solo il tempo fosse clemente: questa pioggia non permette di godere di tanto spettacolo ed i pellegrini camminano a testa bassa infagottati nei loro ponchos, in una fila indiana che profuma di tristezza.

“Gratitudine” è la parola che mi viene in mente osservando il mare color piombo sotto di me:

Gratitudine per essere parte di questo Cammino che mi sta “prendendo” ogni giorno di più, nonostante il freddo, nonostante le difficoltà, nonostante questi continui saliscendi che mettono alla prova le gambe ed i polmoni, nonostante la schiena tormentata dal cartone dello zaino, nonostante mi manchino quegli squinternati amici/fratelli con i quali ho camminato da Irun a Gernika.

In particolare mi manca Jens, il giovane Jens: un giorno gli ho detto che pur non avendo figli, se ne avessi avuto uno mi sarebbe piaciuto che fosse stato come lui, in tutto e per tutto.

Non potevo sapere di aver toccato un tasto dolente: il ragazzo mi confidò tra le lacrime di aver perso il padre in un modo estremamente tragico (non sto a scendere in particolari per il rispetto che si deve ad una confidenza altrui), quando egli era bambino e da quel momento l’assenza paterna ed il modo in cui si è manifestata, gli hanno condizionato la vita.

La frase che a me sembrava solo un sincero complimento,ha scatenato in lui emozioni mai sopite e drammi mai rimossi: mi strinse forte e da quel momento mi chiamò “il mio papà di Cammino”.

Io in questi casi mi squaglio come un cremino al sole e da quel momento lui diventò “mi hijo”.

Questa cosa dura anche adesso quando ci scambiamo messaggi con lo smartphone:

“Ciao, papino, come stai?”

“ Ciao, ragazzo mio: stai facendo il bravo, vero?”

No,il ragazzo non è tanto … “bravo”… a fare il bravo ma rivedo me stesso alla sua età, prima che il mondo mi risistemasse la testa e, semplicemente, sono fiero di lui, anche se da “padre”, lo massacro di buoni consigli che so per certo non verranno applicati, ma che ricorderà al momento opportuno.

Si, il Cammino mi ha persino regalato un fugace ruolo da papà ed è inutile negare che il ragazzo mi abbia lasciato un vuoto.

Jens chiedeva consiglio, si confidava ed in qualche modo cercava conforto e protezione: in cambio mi conferiva quel ruolo importante che io,nella vita di tutti i giorni, non ho mai avuto la grazia di poter esercitare.

Il Cammino regala anche questo.

Un regalo mica da poco!

Ma tutto ciò che ho imparato macinando chilometri “a bordo di me stesso”, dal 2009 ad oggi, risponde sempre alla stessa regola:

“Il Cammino dà ed il Cammino toglie”

Almeno per ciò che concerne le mie esperienze lungo i Sentieri, a questa legge non sono mai sfuggito:

“Il Cammino dà ed il Cammino toglie”!

Questa è solo l’ultima conferma adesso che viaggio volutamente senza la pazza “famiglia” perché nonostante tutto, so che è giusto così.

La pioggia già fastidiosa è diventata nel frattempo un temporale biblico: più che coprirmi con il poncho (ormai non più impermeabile!) non saprei che fare e quindi continuo fregandomene bellamente: l’unica nota positiva è che il cartonaccio dentro all’anima (de li mortacci di chi ce lo ha messo!) dello zaino,dicevo, si è di nuovo inumidito e quindi è diventato più morbido dando un po’ di sollievo alla povera vertebra contro la quale si è così ferocemente accanito!

Poco prima di Onton, il Cammino si affaccia sulla carrettiera e non la lascerà più fino a Castro Urdiales: fortunatamente sono giorni di festa (sempre il ponte del primo maggio) e la strada è praticamente deserta.

La percorro a testa bassa, fradicio come un pulcino e senza nemmeno la possibilità di camminare con la mia musica perché con questa pioggia rischierei di rovinare il mio mp3.

Non resta che andare e pigliare cristianamente ciò che viene.

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Mi riparo per una sosta sotto alla pensilina di un autobus a fumare una sigaretta, quando sopraggiunge una coppia di pellegrini, sorridenti nonostante la giornata da tregenda: avranno sui quarant’anni.

Lei si siede accanto a me e mi saluta come se ci conoscessimo da sempre, lui mi chiede timidamente se può fare una foto alla sua compagna.

Immagino che voglia gentilmente invitarmi a togliermi dalle pall … dico, dall’inquadratura, ma mentre mi alzo per farmi più in là, lui mi invita a restare: vuole che nella foto ci sia anch’io!

Rimango interdetto ma accetto di buon grado:

Chi vorrebbe farsi una foto con uno sconosciuto avvolto in un orribile poncho nero, e per di più in un posto squallido come la fermata di un autobus durante un temporale?

Chi diavolo sono questi due svitati?

Ma tutti a me?

Sorrido nella foto.

E’ così che faccio la conoscenza di Rosalie e Robertus: vengono dal Belgio,forse dall’Olanda,insomma da un posto così, e sono al loro primo Cammino.

Rosi e Rob sono affabili e carini: lui un po’ più taciturno, lei più ciarliera.

Una buona compagnia.

Non ho mai chiesto loro del perché di quella foto bizzarra: infondo non era così importante.

Continuiamo assieme sotto alla pioggia pesante: Rob avanti a gran passo e noialtri dietro ad arrancare:

“Ma cammina sempre così?”

Chiedo.

“Solo quando non è sicuro della strada o teme di non trovare posto in albergue”.

“La strada è inequivocabile”.

Faccio notare.

“Allora è la seconda”.

Ribatte lei con un largo sorriso riferendosi evidentemente all’albergue.

E’ risaputo che a Castro Urdiales l’albergue è piccolino e si riempie subito: in più essendo festa, le pensioni scarseggeranno, poiché la località è ad alta vocazione turistica.

Le frecce ci invitano a percorrere un tratturo fangoso che porterà ad una spiaggia: Castro è visibile davanti a noi nonostante la foschia: ci fermiamo in un bar per tirare il fiato e bere qualcosa di caldo.

Rob e Rosi non hanno lo sgraziato poncho, ma giacche e pantaloni impermeabili con i quali si trovano evidentemente a proprio agio: io sembro il fratello storpio del Gobbo di Notre Dame e per di più,sotto al poncho, sono fradicio comunque!

Ho deciso dentro di me che alla prima occasione me ne sbarazzerò a favore di un completo da pioggia come il loro, ma adesso è prematuro parlarne.

Nel primo pomeriggio raggiungiamo Castro: la pioggia ci sta dando una breve tregua e passeggiamo in questa ridente cittadina alla ricerca di un hostal:

“Pellegrino, hai una scarpa slacciata”.

Una coppia sui vent’anni, lui mi indica lo scarponcino con la stringa che,autarchica, si trascina sul selciato in tutta la sua lunghezza.

“Toh … manco me n’ero accorto!”

Sorrido al mio interlocutore e mi chino per allacciarla.

Il peso dello zaino …

la lunghezza del poncho che piegandomi tocca terra e mi impedisce di raccogliere i due capi delle stringhe …

un po’ di stanchezza.

Il ragazzo non ci pensa due volte:

“Permetti, pellegrino”?

Senza attendere la risposta, si inginocchia davanti a me e con cura fa passare i lacci nelle loro sedi e fa un bel cappio.

Ci si può commuovere perché un tipo ti allaccia una scarpa?

Se la risposta è no, allora Rosi, Robertus ed io siamo tre scemi!

“Dio ti benedica!”

(che detto da me, in qualità di ateo convinto, vale tre volte tanto!)

Il ragazzo mi sorride e ci saluta:

“Buen Camino!”

Robertus è il più impressionato e scuotendo la testa parla sommessamente e non trova niente di meglio da fare che interpretare la parte di un disco rotto:

“Queste cose accadono solo qui … solo qui … solo qui … solo qui …!!!”

Rosi regala al giovane un magnifico sorriso ed una carezza.

Ha ripreso a piovere.

Benedetta pioggia: grazie ad essa molte sono state le disdette da parte di clienti che a causa del maltempo hanno preferito rinunziare alla vacanza già programmata!

Troviamo due belle stanze in un accogliente hostal con tanto di termosifoni accesi!

Indugio un tempo infinito sotto ad una doccia epica per via del megacipollone “a due piazze” dal quale escono ettolitri di acqua bollente.

Armonia …

pace infinita …

anche oggi è tutto perfetto, si …

tutto perfetto!!!

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1 Maggio: Castro Urdiales-Laredo,23Km

Oggi è il primo maggio.

Ho un ricordo un po’ curioso legato a questa importante data che dovrebbe essere celebrata con qualcosa di più profondo del “megaconcertone trullallà”,ma l’importante è far casino.

E’ un ricordo personale che mi sovviene ogni “oggi”e date limitrofe: un ricordo risalente al secolo scorso, 1994 per l’esattezza, e nulla ha a che vedere con la ricorrenza che dovrebbe rappresentare questa giornata così speciale.

Ricordo che ero su un pullman e stavo tornando dal lavoro (già … anche all’epoca si festeggiava quando si poteva), quando alla radio passò una notizia in diretta che rattristò tutti noi. Tutti tranne uno.

Nella mestizia ed il dispiacere generale questo imbecille si mise a saltare in preda ad uno scandaloso moto di giubilo, come se avesse segnato il gol partita nella contesa senza fine tra “scapoli e ammogliati”.

Ci guardavamo l’un l’altro basiti mentre qualcuno (non meno bestia di lui) era già scattato come una faina per mettergli le mani al collo, bloccato appena in tempo da chi aveva un po’ di senno in più da spendere.

Tutti gli altri, io compreso, osservavamo attoniti la scena surreale.

Inciso: stiamo parlando non di ragazzini, ma di responsabili padri di famiglia!

L’imbecille continuava a gridare “che a lui della morte di Ayrton Senna non fregava un c@zzo ed anzi era contento perché quattro anni prima “il bastardo” aveva rubato il Mondiale a Prost, che correva per la Ferrari e quindi “bla bla bla che io sono ferrarista” e perciò sono felice che sia schiantato con tutta la macchina!”

Tra tutti gli “ismi” in nome dei quali abbiamo creato morte e distruzione, credevo che il “ferrarismo” fosse innocuo, ma evidentemente la stupidità umana ha risorse impensabili e ne dispensa generosamente ai suoi adepti senza vergognarsene mai.

I troll, gli odiatori ed i cretini esistevano ben prima dei social, ed anche se questo è un evento che non ha niente a che fare con il Primo Maggio, ogni volta che strappo la pagina di Aprile ed il calendario mi presenta il mese successivo, mi affiorano sistematicamente alla memoria un Campione indimenticato ed un poveraccio con il quoziente intellettivo molto scarso e soprattutto l’empatia di un laterizio.

E’ un pensiero che come un rumore di fondo fa capolino tra i mille rivoli della mente, camminando a passo svelto nel tentativo di combattere il freddo che anche oggi tenta di scalzare la primavera a dispetto di un bel sole già alto sull’orizzonte.

Rifletto, e mi viene da dire che la vita è come una corsa automobilistica: sempre meglio tenere in mano il volante della propria, anche se le curve si fanno pericolose, che vivere dal divano l’esistenza degli altri limitandosi a gioire per le loro disgrazie.

C’è chi si diverte così, e costoro non sono neanche l’eccezione alla regola!

Ho iniziato a camminare intorno alle otto: non so se gli amici belgi (forse olandesi,bisogna che lo chieda) siano già partiti o meno, ma so che faremo la stessa tappa e magari ci troveremo al medesimo albergue: ma anche se “non”, andrà bene comunque.

Dopo aver percorso un bel vialone in falsopiano, le frecce mi invitano verso una stradina in ripida ascesa, tra boschetti e belle casette isolate con tanti fiori ad ingentilirne le finestre; il percorso mi regala perfino un piccolo angolo di verde letteralmente traboccante di fragole selvatiche: non mi faccio pregare e ne raccolgo riconoscente a piene mani.

Oltre il picco di una collinetta, a poca distanza, il mare, e come in un cambio di scenografia teatrale, il Viaggio proseguirà attraverso un fondale blu parallelo alla scogliera: lo spettacolo è meraviglioso e mangiar fragole di bosco appena colte, di fronte al mare … beh … non ci crederete: è un’esperienza sublime.

Se non fosse per questo freddo pungente …

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“… a volte mi sento autostoppista di me stesso

mi chiedo dove vado,mi sto seduto accanto

studio attentamente il mio volto, mi chiedo che musica ascolto

e mi rispondo che canto.

Non mi stupisce che, uno come te

faccia la mia stessa strada.

Ora gira qui, fidati di me

anche il navigatore sbaglia.

Tu dove sei diretto? Per me va bene.

Abbiamo tutto il tempo.

Andiamo insieme”.

(Hyst, “Autostoppista di me stesso”)


Lungo la scogliera, che poi diventerà pascolo, passato l’ultimo cancello,noto una figura di fronte a me, sicuramente un pellegrino … anzi … una pellegrina: cammina infagottata,la supero e noto che porta uno scialle sul viso che le lascia scoperti solo gli occhi, azzurri ed intensi come il mare che ci accompagna.

Non posso fare a meno di notarla, anche perché io stesso ho un buff a coprirmi il volto: incrociamo gli sguardi che sembriamo due banditi di fronte ad una banca in procinto di prenderla d’assalto!

“Freddino, eh?”

Le dico in spagnolo.

Mi risponde qualcosa che stento a capire ma che sa tanto di “slang” statunitense molto West Coast:

“Los Angeles?”

“La butto lì tanto per deviare il discorso, perché in realtà non avevo capito niente di cosa avesse detto ed ogni volta che mi tocca appendermi (succede molto spesso!) ad un “pardon me” o peggio ad un “please, say again” mi abbatto inesorabilmente.

Le sopracciglia della pellegrina misteriosa assumono una postura quasi di minaccia, piegate verso il basso a mimare disappunto:

“Noooouuu! San’abrbra!”

Prego “il dio dei finti poliglotti in missione all’estero”,mio esimio protettore,di aver capito bene (Santa Barbara, aiutami pure tu!) la sua città di provenienza: nel dubbio svio ancora sul discorso aggrappandomi a qualcosa di più facile comprensione.

Con l’indice della mano sinistra abbasso la mia “maschera da bandito” (mi sembrava poco educato non mostrarle il viso) e le tendo la destra:

“Mi chiamo Raul”.

Ci stringiamo la mano:

“Nice to meet you, Rrraaoouul …”

“Arrota” il nome in un evidente sforzo per renderlo intelligibile più che altro a se stessa:

“Io sono Maile”

“Cos’hai contro i losangelini, Maily?”

“Maile, non Maily … Rrrraaaooouuul …”

“Raul, non Rrrrraaaaoooouuuul … Maile!”

Cominciamo bene!

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Invece Maile (il cui nome completo scoprirò essere una litania infinita di vocali male assortite,attraverso le quali fanno lo slalom tre spaesate consonanti) si rivelerà un’ottima compagna di viaggio, ma questo lo scoprirò solo col tempo: per adesso è più che altro una tipa che forse abita a Santa Barbara, non ama gli abitanti di Los Angeles, ha un nome impossibile e l’incapacità assoluta di non straziare il mio!

Quel nome così fuori dal comune è comunque un buon argomento di conversazione: mi racconta che il suo, è di origine hawaiiana (terra che le ha dato i natali) e significa, (niente di meno!) “Principessa Piccolo Fiore”.

Lo trovo affascinante.

Il mio invece significa: “Per quanto tu scappi e ti nasconda, la tua ombra ti seguirà per sempre ovunque tu vada”!

Lo trovo da psichiatra!

La mia interlocutrice pare sorpresa:

“Ma veramente il tuo nome ha questo significato?”

Tento di sorvolare sulla sua domanda.

Camminiamo assieme ragionando sull’origine dei nomi, fino ad incrociare la statale:

“Io proseguirò per asfalto, Maily … ehm … Maile. Secondo la mia guida,i lavori per l’autostrada hanno reso complicato il passaggio lungo il Cammino per mancanza assoluta di indicazioni. Non voglio farti pressione … se tu vuoi continuare per campi … vedi tu, insomma.”

Lei ci pensa un attimo (per la prima volta abbassa la sciarpa che le copre il viso) e poi decide risoluta:

“Va bene l’asfalto!”

Il viaggio non sarà comunque monotono, perché oltre ad essere una conversatrice interessante ma anche “piena di pause silenziose” come piace a me, questa donna è piena di sorprese:

noto che già un paio di volte si è fermata, ha preso qualcosa dal marsupio che porta con sé,qualcosa che assomiglia ad una bacchetta di vetro trasparente lungo poco più di un fiammifero: la fotografa e poi la occulta nel terreno,preferibilmente su una grotta o nel greto di un torrente.

Nota la mia faccia interrogativa ed anche se non oso chiedere, vede che muoio dalla curiosità di sapere.

Maile nella vita di tutti i giorni,ha a che fare con le pietre semipreziose per farne monili, è il suo lavoro, e porta con sé quattrocento (si, quattrocento!!!) dollari di cristalli purissimi che lascia in punti “strategici” lungo il Cammino.

Sono ancor più sorpreso: quattrocento bigliettoni presi da un marsupio e lasciati dietro ad i propri passi come Pollicino!

Il Camino de la Costa ed in un futuro prossimo anche il Primitivo, saranno costellati (prendere nota!) di cristalli purissimi, che lei lascia come un’offerta al Cammino stesso, a “Madre Terra” e come “gentile cadeau” a chi ne troverà uno (se mai lo dovesse trovare, sono abbastanza nascosti) durante il proprio passaggio.

“L’ultimo sarà per il faro di Finisterra!”

Chiosa dopo aver compiuto l’operazione.

“Ma … sono …”

Tento di formulare la frase ma lei mi stoppa:

“Si, sono un discreto valore di cristalli purissimi, ma ne vale la pena, believe me!”

Non voglio indagare oltre perché ritengo che sia affar suo,comunque Maile approfitterà di una bella discesa per spiegarmi il suo modo di vedere il mondo, l’Energia dell’Universo, i chakra, il karma, Madre Natura …

sono in trappola! Capisco di essere fottuto perché non sia mai che mi stia tirando dietro una di quelle creature pallose, ispirate da una filosofia modaiola e new age, che mangiano bacche,ti guardano storto se fumi o mangi il salame e meditano per ore sotto alle querce emettendo suoni gutturali!

La Principessa Piccolo Fiore fugherà ogni mio dubbio la sera stessa,al ristorante, addentando con soddisfazione un bisteccone cotto al sangue ignorando bellamente le buone maniere e l’uso di coltello e forchetta: un carrettiere in gonnella, altro che ispirata discepola new age!

Due anime in una persona sola, un po’ “Hare Krishna”,si, ma anche un po’ “cinghiale”: un mix perfetto per condividere qualche tappa senza annoiarsi.

Superiamo la Valle de Liendo non senza difficoltà a causa dell’assoluta mancanza di indicazioni: ci viene in aiuto un automobilista che si ferma per rassicurarci (ci deve aver visto un attimo spaesati come le formiche quando gli calpesti il formicaio) confermandoci di essere sulla buona strada.

Ha usato proprio questo termine che io trovo sublime: “Sulla buona strada”.

Nel primo pomeriggio saliremo le scale dell’austero albergue di Laredo, un convento di clausura gestito da delle monache, gentili ma poco inclini al sorriso: in realtà ne vedremo solo un paio, poiché alle altre è proibito ogni contatto con l’esterno.

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A Maile verrà indicata la stanza delle donne, a me quella dei maschietti:

“Niente schiamazzi ne’ parlare a voce alta!”

Ci ammonisce la religiosa timbrando delicatamente la credenziale.

“Stasera alle sette c’è la Messa con la benedizione del Pellegrino; la colazione,domattina, è alle sette in punto”.

(facile da memorizzare: “tutto alle sette”!)

Più che un suggerimento, sembra impartirci un ordine, poi ci congeda muovendo impercettibilmente ma con fare risoluto la testa, come a dire: “ora andate e vedete di non far casino!”

Decidiamo di posare le nostre cose ed uscire per bere una birra.

Davanti al bar dove siamo seduti da un po’, stanno transitando Robertus e Rosalie ed io cerco di attirare la loro attenzione:

“Ci siamo persi! Il Cammino è segnalato malissimo!”

Mi dicono dopo un breve saluto. Appaiono molto stanchi.

Mi prendo una piccola rivincita sull’americana che di tanto in tanto mi “incolpava” di averle fatto fare tutta la tappa sull’asfalto:

“Visto?! Senza di me,a quest’ora saresti ancora lì a piantar cristalli in qualche remoto angolo della Cantabria!”

Le faccio notare sarcastico.

Seguiranno le presentazioni ed un’altra piccola “famiglia” si andrà formando.

Complice la tavola imbandita per la cena,dove tutto sembra sempre accadere più facilmente che altrove, nascerà “il Gruppo Tigre”, così chiamato a causa di un piccolo giocattolo di plastica raccolto per strada da uno di noi (evidentemente sfuggito all’attenzione del bambino che lo custodiva) e che la sera a cena fungerà da centrotavola sul desco del ristorante.

“Porterà fortuna!”

Alle sette,come da programma, c’è “Messa del Pellegrino”.

Un gentile parroco porrà le sue mani sulle nostre teste, uno per uno, pronunciando le sacre formule di benedizione … anche per me che non sono avvezzo, è sempre un momento speciale.

Rito ancestrale …

Botta finale …

Certezze che non ho …

… validi argomenti …

nobili intenti …

riflessi lenti:

io Ti parlo,Ti parlo ma Tu non mi senti!

Domattina alle sette, colazione con i dolci fatti “in casa” dalle monache e con generose razioni di cafè con leche, ed anche questo, credetemi,senza essere blasfemi e con i dovuti distinguo, è stato un bel momento!

Qui, in questo austero ed affascinante convento del ‘400, dove tutto il meglio accade “alle sette”.

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2 Maggio: Laredo-Guemes, 34 Km.

“Dalla lira all’euro ho ancora un ventimila in tasca/

ed è così che ci hanno fatto passare da una religione all’altra …”

(Marracash e Gue Pequeno: “Senza Dio”)


Cerco di ricordarmi le parole di questo pezzo rap (più o meno fa così) mentre fumo una sigaretta seduto fuori dall’albergue in attesa delle altre “Tigri”.

Altre strofe non mi sovvengono (non ho più la memoria di quand’ero giovane),se non l’ultima che ha a che fare con l’Innominabile e che non cito per non urtare la suscettibilità di nessuno.

Quando mi misuro con il sacro (ieri la Messa; qui dentro a questo monastero ogni cosa è un monito di Dio o una preghiera verso di Lui) cominciano a tremare le Colonne d’Ercole delle mie certezze!

E’ che vorrei tanto avere “il Dono”, ma proprio non ci riesco: mi metto all’ascolto ma non odo alcun segnale, nessun fremito, niente di niente: encefalogramma religioso piatto!

Ragiono su questo mio limite ma i miei pensieri sono distolti dall’arrivo dei miei compagni ed iniziamo a camminare in direzione del mare: sarà una lunga e bellissima passeggiata lungo la spiaggia (purtroppo anche oggi fa freddo!) verso il battello che porterà il nostro Viaggio a Santoña.

Maile ha la bellissima abitudine (che volentieri ho adottato anch’io) di iniziare la tappa augurando a me e alle altre “Tigri”, il Buen Camino.

Non ci avevo mai pensato: ci scambiamo questo bel saluto con chiunque passi lungo la nostra strada,soprattutto perfetti sconosciuti, ma non lo diciamo mai a chi viaggia con noi al momento di dare il primo passo!

Curioso, no?

Battiamo le nocche del pugno chiuso su quello di chi accompagna il nostro andare:

“Buen Camino, Maile!”

“Buen Camino, Rrrraaaaooouuul

“Buon Cammino, Robertus … Rosalie …”

Questo sarà il rituale che andrà consolidandosi (almeno per Maile e me) giorno dopo giorno e che darà l’avvio alle nostre tappe.

Arriviamo all’imbarcadero che il battellino è già bello carico e si appresta a salpare: riusciamo ad imbucarci all’ultimo secondo, mentre i marinai stanno quasi apprestandosi a sollevare il ponticello.

Lo prendiamo per un pelo!

Questa sarà la prima e l’ultima tappa con la coppia di amici belgi o forse olandesi non lo saprò mai: loro stanno finendo le ferie ed hanno il volo verso casa tra quattro giorni, quindi oggi spezzeranno la tappa per Guemes al fine di non arrivare a Santander con troppo anticipo.

La notizia mi coglie di sorpresa: chissà perché avevo immaginato che sarebbero arrivati fino a Santiago (quante cose diamo per scontate, nella vita?) ed invece le Tigri si divideranno ancor prima del previsto,cioè dire tra un paio d’ore .

Si dice che un paio di giorni sul Cammino valgano una settimana nella vita reale: è strano rattristarsi per l’addio di due compagni che l’altro ieri erano perfetti sconosciuti, ma è così che funziona ed attraversiamo il braccio di mare che separa Laredo da Santoña, con una certa mestizia negli occhi e nel cuore.

Coloro ai quali ci accompagniamo in Cammino, gli scegliamo perché in qualche modo rappresentano qualcosa di noi o che a noi manca e quindi quando spariscono, sparisce una parte di noi stessi.

Ecco perché ci rattristiamo: mica per loro, soprattutto per noi!

Perché saremo di nuovo un tantino più “incompleti”.

Dopo essere sbarcati, Robertus insiste per offrirci una seconda colazione che sa un po’ di “bicchiere dell’addio”.

Il cielo ha capito: inizia di nuovo a piovere.

Oggi non è tutto perfetto, ma non è che si può scegliere e quindi prendiamo ciò che la vita ci offre cercando una nota positiva nella notizia che non ci fa piacere: in questo caso sarà l’abbondante colazione che Robertus ci regala.

Usciamo dal bar comunque sereni e rinfrancati e ben presto ci troviamo ad affrontare un promontorio piuttosto impegnativo che divide la spiaggia di Santoña da quella lunghissima e spettacolosa che porta a Noja.

La salita è decisamente pericolosa perché ci dobbiamo letteralmente arrampicare lungo sassi resi viscidi dalla pioggia e quindi procediamo tutti con estrema cautela in una processione variopinta di ponchos che lentamente guadagnano la cima della collina per ridiscenderla dal lato opposto.

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Saremo una ventina di pellegrini in fila indiana lungo il pendio: lenti e goffi, appesi ai nostri zaini e con questa gobba variopinta; il più temerario inizia a sopravanzare gli altri saltellando come uno stambecco di montagna e canticchiando per far vedere che lui “è un figo e l’ascesa non gli crea alcun disagio” (ancora non lo posso sapere: è Miguel,spagnolo di Almerìa con il quale diventerò amico, ma al momento questa sua esuberanza mi sta decisamente sul caxxo) , tutti gli altri procedono lentamente cercando di evitare gli arbusti spinosi che graffiano le gambe ed i sassi, forieri di insidie che potrebbero far cadere il malcapitato che appoggiasse malamente il piede.

Giunti alla base della collina, sull’enorme spiaggia che ci separa da Noja, tiriamo un po’ tutti il fiato e, in un accordo tacito, aspettiamo che anche la retroguardia della fila guadagni gli ultimi scalini.

La pioggia continua imperterrita a lavorarci i nervi: nel mio caso, devo dire, con un discreto successo!

Questa colonna di “reduci” dalla traversata della collina, si muove tutta assieme,adesso in ordine sparso, lungo il bagnasciuga, si scambia idee, si riconosce, si annusa.

Maile sta parlando fitto fitto con un paio di ragazze, una delle quali ha sulla schiena uno zaino spaventoso (peserà venti chili!) che trasporta con apparente noncuranza: essendo piccola e mingherlina, quel baule verde sulle sue spalle,fa ancora più effetto!

Io sto parlando con Rosalie; un gruppo di ragazze che parla una lingua incomprensibile, mette in mano uno smartphone a Robertus che cammina un metro davanti a noi, e lo invita a gesti a far loro una foto con il mare alle spalle: io come mia abitudine, quando c’è un gruppo in posa, mi metto davanti all’obbiettivo con la faccia da ebete (mi viene naturalmente bene!) scegliendo con cura il momento dello scatto, e faccio “bombing”!

Mi piace da morire fare bombing nelle foto altrui: è uno dei miei hobby più intelligenti e quindi figuratevi gli altri; solo il cielo sa quante foto in giro per il mondo presentano il gruppetto in secondo piano ed un vecchio imbecille che non c’entra nulla, sorridere beota al centro della scena, dentro alla fotocamera!

Fuori di testa, fuori luogo,fuori fase e spesso fuori fuoco di fronte a loro! Tanto si possono cancellare, no?

Fatta la mia tradizionale figura da scemo (non sempre i bombing vengono presi sul ridere: c’è chi si “storce” veramente e lì mi diverto il doppio!), continuo la camminata sulla spiaggia, quando mi raggiunge Maile:

Rrrraaaoooouuul, le ragazze qui dietro mi dicono che c’è una via più comoda e veloce per raggiungere Guemes: ti va di fare una deviazione? Però è tutto asfalto.”

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Considerando il fatto che piove e per sentieri ci si infanga, considerando che le parole “comodo e veloce” in questa giornata uggiosa sono come un raggio di sole e considerando che io amo l’asfalto,accetto volentieri la proposta: alla fine dubito che avremo “accorciato”, ma ci prendiamo, si diceva, quello che passa il convento!

A Noja saluteremo Rosi e Robertus: loro proseguono sulla strada “ufficiale” perché hanno prenotato un hostal in un paesino a metà strada tra Santoña e Guemes: ci abbracciamo, ci scambiamo i numeri telefonici e come sempre accade in Cammino, ci giuriamo amicizia eterna consci di non sentirsi mai più da lì a pochi giorni, con gli occhi che “se non te ne vai”, tenderebbero via via ad inumidirsi.

Ci sentiremo per un po’ tramite wassap e ci scambieremo le foto: ve ne volete andare? Non serve a niente continuare ad abbracciarsi. Adios!

“Tigers Forever!!!”

Urliamo “al tre” tenendoci strette le mani.

Ed un’altra pagina si chiude ed un’altra se ne apre.

A proposito: saranno stati belgi oppure olandesi?

Ed il Cammino come sempre, dà e poi toglie.

Arriveremo a Guemes con un sole malato che faticherà a farsi spazio tra le nubi, nel caldo abbraccio dell’albergue più bello, intrigante ed affascinante di tutto il Cammino; con il fuoco acceso nella grande stanza, ad ascoltare i pensieri,i progetti e le esperienze di vita di Ernesto.

Quest’uomo illuminato dalla Fede, quella Fede che a me manca e che rende coloro che hanno il Dono sereni come io non sono mai stato.

Sereni come Ernesto, di cui avverto le mani callose e ruvide di chi fatica veramente, mentre stringe le mie in un saluto, lisce e curate come le mani di colui che non ha mai faticato troppo in vita sua.

Eppure lui è sereno.

Ernesto è sereno ed in pace con il mondo.

Soprattutto riesce ad infondere la sua pace a chiunque abbia a che fare con lui.

Anche a me.

Adesso posso godermi il riposo notturno dentro al mio sacco a pelo rilassandomi con il mio inseparabile mp3 nelle orecchie.

Manco a farlo apposta, sta passando “Lettere dall’inferno” di Emis Killa: un bel riassunto del mio modo di vedere Dio.

Quattro minuti per ascoltarla ed un paio d’ore per “sistemare” le mille considerazioni che mi porta in dote.

Poi arriverà il sonno a rimboccarmi le coperte sui pensieri.

E così sia.

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Allegati

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3 Maggio,Guemes-Santander. 12Km

Dodici chilometri, tappa volutamente corta per due motivi.

Il primo: Santander è una città che merita una visita e dopo che la mia stupidità mi ha (giustamente!) punito a Bilbao,stavolta non voglio lasciarmi scappare l’opportunità di girellare un po’ in un grande centro.

Adesso che vivo in provincia, la città mi manca e nondimeno, dopo aver camminato due settimane tra villaggetti, pascoli e caproni,un po’ di sana “civiltà”,di traffico caotico e di gente che passa senza salutarti, è apprezzabile!

Il secondo: andare in un negozio di articoli da trekking (che Maile ha già individuato sul web e ne ha addirittura “salvato” il percorso dall’albergue), per ricomprare lo zaino ed il poncho; la mia vertebra mi sarà grata per il resto del viaggio!

La tappa, seppur breve, ci regalerà dapprima tanto asfalto, poi una sontuosa camminata sulla cresta di una falesia, dalla quale mi divertirò a fotografare i gabbiani che volavano ad altezza d’uomo un metro oltre al precipizio, ed infine una bella spiaggia sulla quale (oggi il tempo è clemente e nonostante il vento freddo splende il sole di maggio) mi concederò una camminata a piedi nudi sul bagnasciuga!

Vuoi mettere?

Ho la lingua verde!

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Maile che, come dicevo, è tutta presa da rimedi naturali, fiori di Bach ed altre singolari toppe a colori di chiara estrazione New Age, usa mettere nella borraccia alcune gocce di un liquido molto pastoso che pare clorofilla: dice che serve per ossigenare i muscoli, bah …

Vedo la boccettina incustodita (la proprietaria è intenta a far foto) ed il bambino che è in me,fa quello che è normale fare ad una mente infantile: apre … scruta dentro … osserva il contagocce con l’attraente liquido color smeraldo … annusa … e con l’aria risoluta si spara tutto il contenuto del contagocce in bocca!

Risultato: lingua color ramarro da oggi e per alcuni giorni a venire!

Il sapore?

Non ne valeva la pena.

Principessa Piccolo Fiore, ancora ride!

Indugiamo sulla falesia a fotografare gabbiani ed ancor di più indugiamo sulla spiaggia: arriviamo all’imbarcadero per Santander che è già passata l’una.

Fare il giro lungo? ventiquattro chilometri per evitare il battello?

Naaaa!!!!

Personalmente non vedo l’ora di mettermi in modalità “turista”; la guida di Maile (molto americana e quindi altrettanto pratica e priva di fronzoli, neanche riporta l’opzione del “giro lungo”!

Lei non sa della possibilità ed io evito accuratamente di rivelarglielo:

tutti contenti!

Attenti …

nobili intenti …

bugiardo come i parenti …

… al pranzo di Natale.



Sul battello un moccioso che avrà sei anni mi osserva dal suo sedile: sempre il bambino che è in me (stamani è incontenibile), lo osserva come a dire:

“Embè?”

Dentro la mia testa malata pensavo:

“eddai, fallo … tutti i mocciosi lo fanno … fallo, dai …”

Avevo in mente Simmons dei Kiss ed una voglia matta di imitarlo, quindi lo guardo “torvo” facendogli una smorfia e lui non si fa pregare: tira fuori la lingua e me la mostra!!!

Non aspettavo altro!

Con una soddisfazione incredibile e degna peraltro di miglior causa, gli presento mezzo metro di lingua verde!

Sorpreeesa!!!!!!

Ci rimane malissimo!

Uno a zero per me!

Pumpappero pumpappè!

Non essere padri ti riserva il vantaggio di non evolvere mai, di non “passare mai di grado” e, non c’è niente da fare: anche da vecchio rimani “figlio” (e quindi bambino) con tutto ciò che ne consegue; se poi il mio unico approccio da “padre”, dev’essere con quello sconvolto e perennemente ribaltato di Jens … no, non passerò mai di grado!

(e non diventerò mai nonno: quindi sarò giovane per sempre!)

Scendiamo dal battello Maile, io e … Cecilia.

Cecilia è un piccolo coleottero (verde pure lui … cioè: lei) che ho raccolto sulla nave ed al quale (alla quale) ho dato questo nome: un coleottero è inequivocabilmente animaletto di terra e quindi l’ho raccolto dalla barca, che non era il suo elemento naturale, e l’ho depositato su una bella aiuola fiorita in terraferma: benvenuti a Santander!

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Dopo aver mangiato qualcosa, ci rechiamo in albergue.

L’hospitalero è un ragazzone gioviale e ciarliero che mi fa subito simpatia: gli racconto del mio zaino difettoso, del cartone che si è deformato …

“Carton?”

E’ perplesso.

“Si, carton! es una mochila italiana: en mi Pais, casi todo es hecho de cartòn!”

Insomma, al netto del mio patrio orgoglio, gli dico se lo posso lasciare in albergue in caso qualcuno ne avesse bisogno.

Mi sono raccomandato di spiegare all’eventuale nuovo proprietario quale sia il difetto ed a cosa va incontro: non voglio penalizzare ne’ far del male a nessuno!

“Dejalo aquì y no te preocupes!”

Mi dice sbrigativo indicandomi una cassa con dentro tutta la mercanzia lasciata nel tempo da altri pellegrini.

Ringrazio e già che ci sono ci butto anche il poncho.

Il negozio di trekking e camping è davvero ben fornito: comprerò un meraviglioso zaino rosso e nero senza cartone, una giacca ed un pantalone impermeabili che mi premurerò di fotografare per Rosalie e Robertus: infondo è stato un suggerimento loro!

Apprezzeranno il mio acquisto via wassap dalla loro casa in Belgio ... forse in Olanda … fa lo stesso.

Con il mio nuovo zaino, mi sento “nuovo” anch’io: che bella sensazione indossarlo e non sentire quel chiodo infilato nella schiena!

Quasi quasi non mi pare vero!

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Non comprate quello zaino: ha una “m” stilizzata ed è fatto di cartone!

Io avevo un brutto zaino verde che per ragioni mie non volevo più usare e quindi pensavo di aver rimediato, acquistando per pochi euro ‘sto cestino da picnic!

Non comprate “m”! (dico, ma si può?)

“Ma no, Raul … io ce l’ho e mi ci trovo benissimo!”

Ha l’anima di cartone! Non lo comprate!

Non comprate “m”!

Io ve l’ho detto: peggio per voi!

Il resto del pomeriggio lo passeremo a visitare la città alla ricerca più che altro di vie riparate dal forte vento che disturba il passeggiare.

Maile si rivelerà un po’ filosofa quando, di fronte ad una clara con limòn, mi spiegherà la differenza tra “dolore” e “sofferenza”.

“Il dolore esiste ed è ovunque: dentro di noi, attorno a noi, nei notiziari, negli ospedali, nella perdita di persone care,nella fine di un amore,nelle vicende che ognuno conosce e vive sulla propria pelle.

Il dolore è inevitabile.

La sofferenza invece, la scegli: scegli tu se soffrire o no di fronte al dolore!

Hai presente gli atleti paralimpici?

Loro gioiscono per una prestazione sportiva di estrema eccellenza; magari in un angolo del mondo, un loro coetaneo si dispera e cade in depressione perché ha perso le gambe!

Capisci? Il dramma è lo stesso, però uno decide di soffrirlo, l’altro no, uno ne fa un problema insormontabile e l’altro una grande opportunità …

Il dolore è di entrambi, ma la sofferenza è solo di uno di loro,perciò assume giocoforza il metro di una scelta individuale”!

Il dolore è indistintamente di ogni essere senziente, soffrire per esso, invece o cavalcarlo come un cavallo di razza che ti porti ovunque, è scelta personale e non legge universale e quindi non è uguale per tutti!

Fosse solo per questa rivelazione (alla quale cerco di lavorare ogni santo giorno), questo Cammino ha avuto un senso!

Non ci avevo mai pensato: da quel momento sto cercando di separare dolore e sofferenza in un esercizio che non risulta affatto facile:

“Consapevolezza”.

E’ la parola chiave secondo Maile:

“Sta tutto nella consapevolezza”.

Scegli di soffrire oppure no: “it’s up to you …” dipende da te.

“Dipende-da-Te!”

Enfatizza la chiosa con una lentezza tale da far scaldare la birra nel bicchiere: sa di aver sortito l’effetto che si era preposta: quello di farmi cappottare.

Sono letteralmente rapito da questa epifania: tiro fuori un pezzetto di lingua verde nello sforzo di cercare di capire e come una sassata sul vetro della finestra, questa cosa rompe l’incantesimo che si era creato.

Dura fare “filosofia” con un tizio che ha la lingua del colore sbagliato ma la faccia seria di chi tenta di assumere l’espressione di circostanza che il momento topico richiederebbe.

Qui ci vuole un’altra clara con limon:

“Se le risposte piovessero gli ombrelli sarebbero al contrario/ Come per colpa del vento./ Abbiamo i telescopi puntati sull'universo/ E nemmeno una lente d'ingrandimento/ per riuscire a guardarci dentro”

(Raige, “Stelle”)
 
4 Maggio, Santander-Santillana del Mar. (37 Km)

Santillana del Mar. In Spagna usano chiamarla “La Città Bugiarda” perché:

“Sant” … e non è santa.

Perfino la “y” si maschera da “i” e quindi mente (Santa y llana – Santillana)

“Llana”,appunto … ed “in piano” non lo è, anzi!

“Del Mar” … ma il mare non c’è.

Santillana del Mar: La ciudad mentirosa!

In Cammino si racconta, si racconta molto, che siano curiosità leggere come questa o storie di vita molto più importanti, di quelle che ti lasciano senza commento.

Quella che sto per narrare mi è stata offerta da una ragazza di Barcellona della quale neppure ricordo il nome: avrò camminato con lei non più di due ore e poi non l’ho vista più, ma proprio mai più … o forse manco me l’ha raccontata lei … ma è poi così importante, alla fine?

Maile era avanti con un altro amico di nome Jim, un vulcanico ed esuberante ultrasettantenne che io evitavo come la peste non perché fosse antipatico, anzi: semplicemente parlava “british” (con spiccato accento irlandese, sua terra di origine) alla velocità della luce e mangiandosi tutte le parole.

Seguire il filo dei suoi discorsi,per quanto interessanti fossero, ed interloquire nella speranza di non prendere lucciole per lanterne, richiedeva concentrazione e “dedizione totale alla causa” e non sempre ne avevo voglia.

Ad essere onesti, quasi mai.

Quando lo “incrociavamo”, il che avveniva piuttosto di sovente, lo intratteneva Maile, poichè ovviamente era molto più abile di me a girare,comunque non senza difficoltà, sul suo pazzesco ottovolante lessicale.

Ma torniamo al racconto della ragazza catalana perché sto divagando:

userò nomi di fantasia per pudore, perché non rammento con esattezza i nomi veri (e se li ricordassi non li userei ugualmente!), e perché non sono neanche tanto sicuro di poterla raccontare,datosi che non è vissuto mio ma di altre persone; quindi facciamo così: cambiamo qualche particolare e prendiamolo come un parto della fantasia. Ogni fatto analogo realmente avvenuto a persone identificabili con un nome, un cognome e connotati di forma umana, è puramente casuale.

Racconterò questa storia oggi perché (per gli strani scherzi del Destino) “oggi” è proprio il giorno “giusto” per farlo:

questa è la storia di Maria Luz.

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“Tanti anni fa, due adolescenti incrociarono i loro sguardi e le loro giovani vite in un remoto villaggio vacanziero ai piedi delle montagne ai confini con la Francia e si invaghirono l’uno dell’altra.

Fu una vacanza di quelle che si ricordano per la vita: le farfalle nello stomaco, il primo bacio, le serate a guardare le stelle, i gesti goffi ed imbranati delle prime carezze, un fiore di campo colto al solo scopo di ornarle i capelli, i giuramenti per l’eternità.

Poi la vacanza finisce e le rispettive famiglie tornano alle loro città di provenienza: i sogni belli durano sempre troppo poco.

Seguiranno pagine e pagine di parole affidate al postino, messaggero d’Amore di due cuori che si sono trovati e riconosciuti.

Per Sempre!

Ti sposerò, ci sposeremo, nessuno ci potrà mai separare.

Ed un’altra estate attesa a cancellare i giorni dal calendario come due carcerati a fine pena.

Incontro di due innamorati che adolescenti non lo sono più, perché le estati si sommano una all’altra così come gli inverni: quegli inverni trascorsi perlopiù appesi ad un ruffiano filo del telefono,o respirando come ossigeno le parole dell’epistolario che si scambiavano settimanalmente: non c’era mica, internet!

Ma un inverno più bastardo degli altri, Mariano (lo chiamerò così),forse per noia, forse per fare il gradasso con gli amici, forse perché “il momento del coglione” arriva sempre per tutti,prima o poi, e nessuno ne viene risparmiato,forse per una bravata, forse perchè il Destino è stronzo,Mariano, dicevo, incontra Pilar su una pista da ballo.

Maledetto sia quel momento di follia, Mariano e Pilar si appartano in macchina alla fine di una serata di festa, musica e bicchieri che tintinnano; quell’unica maledetta volta: e Pilar rimane incinta!

Mariano è costretto a sposarla alla fine di quel freddo inverno.

Maria Luz è distrutta …

Maria Luz è affranta …

Maria Luz è confusa…

fusa …

disillusa …

non riesce a capire …

non ne è capace …

E Mariano che non si dà pace.

Maria Luz e Mariano si amano ancora e si ameranno per sempre: passato il temporale,passata la bufera, continueranno a scriversi (anche se Pilar non lo sopporta), continueranno a vedersi da buoni amici nel villaggetto ai piedi della montagna dove la nuova famiglia di Mariano e la sua, continueranno a passare le vacanze estive.

Dei due ragazzi innamorati resta il rimpianto, il macigno di un amore prepotente e mai sopito, anche quando Maria Luz, ormai donna, incontrerà l’uomo che diverrà suo marito, anche quando Maria Luz, ormai rassegnata, baratterà la solitudine con la compagnia di un uomo che saprà farla felice nonostante tutto.

Il buon Josè che, come l’omonimo vecchio falegname palestinese, curerà e proteggerà questa donna di cui conosce ed accetta la storia.

E gli inverni seguiranno e le estati ne prenderanno il posto nel villaggetto ai piedi della montagna: Maria Luz, Josè e Mariano amici per la pelle e sempre pronti ad andare per passeggiate,a far fotografie, a cercar funghi nel fresco dei boschi ai piedi del monte: Pilar no, lei sarà sempre un passo indietro,volutamente in disparte.

Per sua scelta,chiaro, e perché da donna, vede quello che non si può dire e che nessuno può ammettere; nemmeno con la nascita di altri figli da parte di entrambe le coppie, nemmeno quando tra i capelli apparirà qualche filo bianco e le spalle inizieranno a farsi curve sotto al peso degli anni.

Mariano e Maria Luz (seppur nel rispetto reciproco e delle rispettive famiglie) sono un’anima sola,prigioniera di un amore mai consumato.

Loro sono “Uno”.

Loro non hanno bisogno di dirselo ancora ed infatti non se lo dicono più, perché lo hanno sempre saputo e quindi non serve ricordarlo.

Josè ne è stato messo al corrente fin dal primo momento che è apparso in questa favola non sua.

Pilar lo ha dapprima negato a se stessa e poi lo ha subìto in un muto livore.

Non sono gli anni del “divorzio facile”, poi ci sono i figli … e poi che direbbe la gente?

E gli anni passano. E le estati si susseguono.

Un bel giorno, Maria Luz scopre un altro folle amore: quello per il Cammino di Santiago.

Parte da sola perché Josè non ne è attratto e tornerà riempita da questa esperienza speciale fino al punto di volerla ripetere di nuovo.

Infatti al suo ritorno, ne parla così entusiasticamente a Mariano che lui,sorprendendo se stesso e la sua amica del cuore, decide in un momento.

Decide che andrà in Cammino con lei.

Sorpresa, meraviglia, stupore, gioia fino ad esplodere: il loro Cammino di Santiago, con la benedizione di Josè ed i mugugni impotenti di Pilar.

Il loro Cammino.

Il loro pezzetto di vita assieme che il Destino bastardo era appena giusto che gli riconoscesse e gli concedesse.

Bastardo Destino!

Un mese di Cammino vale un anno nella vita normale, si dice: ebbene loro lo hanno vissuto appieno e quello che accade in Cammino, che resti in Cammino!

Un dono e, dono nel dono, lui le adorna il polso con un bracciale su cui spicca il simbolo celtico dell’eternità.

Dell’Eternità.

Per l’Eternità.

Pochi euro, regalino dozzinale da negozio per turisti: ma prezioso agli occhi di Maria Luz come un diamante di Kimberley.

Con il simbolo dell’Eternità.

Fu un Cammino come non ce ne saranno mai altri: felice e disperato.

Fu un Cammino per riannodare un filo spezzato più di quarant’anni prima.

Fu un grande Cammino nonostante quel fastidioso dolore alla schiena che affliggeva Mariano (colpa dello zaino), nonostante quelle febbriciattole insistenti (sarà che ho preso freddo), nonostante quella debolezza che non lo abbandonava mai (sarà che non sono abituato a camminare per venti chilometri al giorno), nonostante dimagrisse a vista d’occhio (vedi il movimento e la vita all’aria aperta?).

Fu un Cammino come non ce ne saranno mai altri.

Non ce ne saranno mai più altri.

Fino a Santiago e poi a Finisterra a guardare il sole che si nasconde alla fine del mondo come loro, prima di rispuntare da est e tornare a casa.

Mariano ed il suo dolore alla schiena, Mariano e le sue febbri, Mariano e la sua debolezza, Mariano che consulta un medico, Mariano e la corsa inutile in sala operatoria.

Mariano che ha un brutto male in fase molto avanzata.

Ed il Destino che chiede loro il prezzo del biglietto con il ghigno dei cattivi: avete vissuto uno spettacolo indimenticabile e da protagonisti, in un teatro incantato chiamato Cammino. Questo è il conto, prego!

Bastardo, bastardo Destino!

Maria Luz che non vedrà mai più Mariano,perché due mesi esatti dopo il loro ritorno da Santiago, Mariano muore.

Due mesi esatti dopo il loro ritorno da Santiago, Mariano è morto.

Ma non per Maria Luz, quando spesso, molto spesso, quel passerotto impertinente bussa col becco al vetro della sua casetta di vacanza sui Pirenei ogni estate, per poi volare via verso l’orizzonte.

Fino alla fine,fino a che non finiranno le estati, lì,nel villaggetto ai piedi della grande montagna.

Fino a quando il nido del passerotto accoglierà la sua parte mancante.

Fino alla promessa contenuta su quel bracciale.

Fino all’Eternità”.

Voi capite che dopo una favola come questa, l’uscita da Santander nella brutta periferia, il treno preso al volo e senza biglietto per una fermata, solo per evitare di passare a piedi il ponte della ferrovia a Boo, evitando di farsi masticare dal locomotore, il palloso saliscendi tra le colline mio,di Jim e dell’americana, sono indegni di essere raccontati: siamo arrivati a Santillana del Mar,”la ciudad mentirosa”, senza il cartone dello zaino a spaccarmi la schiena, con il mal di testa per seguire i ragionamenti ed interloquire per quanto possibile con l’irlandese e con la lingua ancora irrimediabilmente verde, questo è tutto!

Dedico questa tappa a Mariano e Maria Luz.

“È vero, solo i sogni ti sollevano
ma dopo che li hai spesi mancano anche se si avverano.
Restano i vuoti e siccome solo il tempo scioglie i nodi
ho cambiato l'ora a tutti gli orologi”…


(Raige,”Non è una gara”)

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5 Maggio. Santillana del Mar- Comillas, 23 Km

Lasciamo questa splendida cittadina incastonata tra le colline nonostante il suo nome evochi il mare: Santillana bella e bugiarda.

Gli scorci da presepe, la lunga via principale lastricata con ciottoli di fiume, che obbligano le anziane turiste in comitiva a camminare come sulle uova mentre entrano ed escono dai negozietti di souvenir, i loro gridolini di ammirazione mentre fanno il filmino all’uomo della sidra che versa quel nettare nei bicchieri da un’altezza impensabile (non senza una punta d’orgoglio per questa sua abilità), i pochi pellegrini (manco tanto pochi!) che si riconoscono tra loro e si salutano anche se non si sono mai visti prima: fratellanza.

A quest’ora le antiche stradine sono deserte e possiamo goderci il borgo senza folla, in tutta la sua bellezza.

Una gatta ci sbarra il passo miagolando insistentemente: ci guida verso una scatola di cartone sotto a un porticato che custodisce quattro piccoli micetti ancora con gli occhi chiusi: mamma ha fame, noi non abbiamo nulla da darle ne’ tantomeno possiamo comprare qualcosa perché a quest’ora è tutto chiuso.

Ci guardiamo in faccia come a domandarci “che si fa”, ma non abbiamo le risposte, una vaga tristezza prende il posto all’entusiasmo di inizio tappa:

“Buen Camino, Tigre!”

Ci eravamo detti fuori dall’albergue battendo,come consuetudine, le nocche dei pugni chiusi.

Adesso questa “tigre in miniatura”, con le mammelle vuote quanto lo stomachino, ci domanda se abbiamo un po’ di cibo per lei.

“Ma non abbiamo niente …”

Le parlo come se capisse.

Maile prova a dirglielo in inglese, ma invano: quella capisce solo la fame e l’urgenza di allattare i suoi piccoli.

Confidiamo sul fatto che chi le ha messo il cartone, le procurerà anche il cibo: infondo ha un bel pelo lucido e pare in buona salute. Ci consoliamo così.

La micia ci segue per un po’ e poi perde le speranze e ci osserva mentre ci allontaniamo pensando con tutta probabilità che fossimo inutili come due tergicristalli su un sottomarino.

Per parte mia, giuro a me stesso di non farmi trovare mai più impreparato: comprerò una scatoletta di tonno al primo alimentari aperto e la porterò sempre con me.

Mai più vorrò “fuggire” impotente di fronte ad una piccola creatura affamata!

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Oggi ci aspetta un po’ d’asfalto ed uno sterrato e poi ancora asfalto fino a Caborredondo, dove finalmente troviamo un bar aperto per fare colazione (ed uno spaccio per comprare il tonno per qualsiasi gatto affamato che incontrerò lungo il Cammino!).

Di fronte al secondo cafè con leche,Indugiamo un po’ di più consultando la guida di Maile: il Cammino ci offre due alternative e discutiamo sul da farsi:

La più lunga è un sentiero in mezzo alla natura come piace a lei.

La più corta è su carrettiera ed è quella che preferisco io.

Tira e molla, la convinco a percorrere l’asfalto ma non ne pare entusiasta: per farmi perdonare, le insegnerò una canzone in lingua gallega che parla del Cammino a Finisterra: una californiana che tenta di scalare una canzone gallega è uno spasso per le orecchie; la strada si rivelerà piacevole tra schiamazzi, parole storpiate “ e che vuol dire questo e che vuol dire quello”.

Luar Na Lubre avrebbe molto da ridire “sulla versione yankee” del suo “Canto de andar”, ma a conti fatti credo che sarebbe contenta del risultato finale: da affinare, certo, ma insomma, dai …!

A Cobreces “le concedo” una deviazione verso quella che lei definisce “la natura” e ci troviamo a camminare per un assurdo saliscendi, allungando insensatamente il percorso: si convince che il Cammino “nella natura” è faticoso ed ingannevole e soprattutto le salite, non le permettono i vocalizzi in gallego!

Non lasceremo più che le frecce decidano per noi e valuteremo di volta in volta se lasciare o no la strada per la campagna.

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Quasi sempre non conviene, pertanto ce la faremo tutta su carrettera fino a che finalmente appare di nuovo il mare: la giornata è assolata ma ventosa,la distesa azzurra in lontananza si agita in strisce di schiuma bianca create dal vento e non invitano certo alla solita passeggiata sul bagnasciuga.

Maile ripassa la prima strofa della sua canzone fino allo sfinimento: accidenti a me e a quando glie l’ho messa in testa: ne mancano altre tre più il ritornello!

“Qui come fa? Non mi ricordo … cantamela tu!”

Le sillabo a mezza bocca le parole evitando di cantarle.

Lasciamo il mare alle spalle perché l’albergue di Comillas è nella parte alta della città, seguiamo la statale e poi le indicazioni per il piccolo ostello: lo troviamo.

E’ ancora chiuso e già pieno di zaini in fila di fronte alla porta, i loro proprietari stravaccati sull’erba oppure (i più ringhiosi) di sentinella a proteggere l’entrata “che sono arrivato prima io”.

L’ostello conta venti posti e l’americana comincia a contare le teste:

“ One … two … three … ten … fifteen … eighteen … nineteen … (tira un sospiro) … twenty! Twenty-one … twenty-two …”

La voce le diventa sempre più flebile ad ogni numero: arriva al ventiquattro ed ancora non ha finito.

Si arrende.

“Hostal”.

Le dico con la faccia rassegnata allargando le braccia in segno di resa.

“E’ inutile star qui ad aspettare che apra per poi non trovare posto: con tutta la gente che deve ancora arrivare, rischiamo di non trovare da dormire nemmeno a pensione. La scelta non è molta perché è bassa stagione ed il ponte del primo maggio, se dio vuole, è finito. Avranno chiuso bottega e se ne saranno andati”.

Inizio a telefonare e finalmente trovo qualcosa: dovremo spostarci di nuovo verso la parte bassa della città, verso il mare.

Procediamo attraverso una ripida scalinata, un breve tunnel, una nuvola passeggera che ci infradicia a dovere (inutile tirar fuori la mercanzia da pioggia per poche decine di metri!), un campanello che non funziona (ci avevano avvertiti, al telefono) ed una stanza con la carta da parati di un osceno verde/ marrone/giallastro a chiazze che più che una tappezzeria pare un panorama post-atomico, con un armadio a muro tutto scrostato e senza sportelli ed un triste termosifone grigio-topo, ovviamente spento: lì dentro ci saranno meno di dieci gradi!

Per un sovrapprezzo che paghiamo volentieri alla nipotina avida di Scrooge (ci sarebbe da litigare ma vabbè!), ci faranno “il favore” di accendere la calefaciòn rendendo quella stanzuccia triste e dimessa, un tantino più confortevole seppur brutta come raramente se ne vedono.

Per renderla ancor più squallida, tenderemo un paio di fili da bucato per asciugare i panni infradiciati dalla nuvola passeggera (adesso splende di nuovo il sole) e per evitare di impiccarci ad una trave del soffitto con le bretelle, a causa di uno scenario tanto deprimente, andiamo al bar di fianco a consolarci con un buon bicchiere di Rioja.

Il barista, un giovane simpaticissimo e gioviale di nome Rubèn,sentendo “Miss California” cantare (oddio, sta diventando un incubo) “quella” canzone, non ha niente di meglio da fare che farla passare sullo stereo del suo locale (bastardo, ce l’aveva!!!) osservando la reazione della Maria Callas dei Pellegrini, con la faccia di chi crede di aver fatto una cosa fighissima!

Lei ha un moto di sorpresa: perché le donne americane, mi chiedo, quando hanno un moto di sorpresa restano bloccate, dopo aver ispirato sei metri cubi d’aria, con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati?

Potrebbero rimanere così per ore senza neppure diventare cianotiche!

Dopo essersi ripresa dallo stupore, si alza e corre ad abbracciare Rubèn: le è riconoscente per il fatto di poterla ascoltare “dal vivo” per la prima volta dopo aver tentato di impararla per tutta la mattinata!

Rubèn è così contento per la sua “pensata” e per l’effetto che questa ha sortito, che il prossimo giro di vino lo offre direttamente lui (credo che Principessa Piccolo Fiore le piaccia!), il giro dopo Maile e quello dopo ancora io (notare che siamo a stomaco praticamente vuoto!).

Nello spazio di un paio di bottiglie saremo ancorati alle nostre sedie impossibilitati ad alzarsi, Rubèn continua a fare il suo lavoro commentando con altri avventori qualcosa a proposito della salute mentale di certi viandanti, io sono bravissimo a darmi un contegno, mentre Maile ha mollato del tutto i freni:

“Meu amoooor, meu amooooor/ imos cara ao Mar Majoooooor/ Minha amaaaaaaada, meu beeeeeemmm … (qui prende fiato come un pescatore di perle polinesiano che sta per andar sotto in apnea) … imos polas terra do aleeeeeeeeeeem”.

Devastante!

Mi pare di essere tornato ai bei tempi della “crazy family”: penso a quella banda di teneri svitati e sembra che sia passata un’eternità da quando camminavamo assieme … l’unica costante è che per una ragione o per l’altra,cambiano gli attori ma mai il copione.

Qui si finisce sempre a (pochi!) tarallucci e (molto!) vino!

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6 Maggio, Comillas-El Peral. 32 Km

Aiuto!

L’americana si è sentita male ed ha passato una nottataccia!

Non sapevo come cercare di aiutarla perché l’essere in difficoltà di fronte a me, comunque un estraneo,le procurava una sorta di “vergogna” e quindi mi barcamenavo tra il rispetto per il suo sacrosanto diritto al pudore e l’urgenza di fare qualcosa per alleviarle i dolori di stomaco, i brividi di freddo, gli attacchi di vomito …

E’ una situazione alla quale non eravamo preparati: all’improvviso tra due compagni di Cammino che condividono molto di loro stessi in una situazione, diciamo così, codificata, si inserisce un elemento destabilizzante che di colpo mette tutti in difficoltà.

Non sei un perfetto sconosciuto che soccorre qualcuno per strada di cui non sai ne’ storia ne’ pregresso e quindi nessuno è emotivamente coinvolto, ma parimenti non sei una persona così in confidenza da poterti permettere di reggere la testa sul cesso a chi sta vomitando a più riprese la cena della sera prima.

La mia amica era in estremo imbarazzo a causa della mia presenza, però non potevo scomparire ed anche potendo farlo, mai e poi mai l’avrei potuta lasciare in quello stato!

Una situazione ingarbugliata e per niente di facile soluzione: se ti comporti da “crocerossino” sei percepito come un saccente importuno ed inconcludente sindacalista del “Trasporto Aereo”; se non fai nulla, ti senti uno stronzo arido e senza coscienza come un banchiere o,peggio, come il manager di una compagnia aerea italioto-sceicca.

Si crede, a torto, che percorrere gli stessi passi, raccontarsi la vita e prendere a morsi lo stesso panino, sia sufficiente (parlo del Cammino,ovvio!) per instaurare un rapporto di fratellanza e di complicità, credi che ormai basti guardarsi negli occhi per capire l’altro, ma stanotte ho scoperto che non è così: è il vomitare a decidere se sei fratello oppure sei di troppo e nel secondo caso, anche animato dalle migliori intenzioni, continui ad essere solo un elemento di disturbo.

Non può essere che una persona che sta male (e che non sia, va da sè, in pericolo di vita) debba preoccuparsi più del suo sacrosanto pudore che dell’urgenza di trovare un qualsiasi rimedio al suo malessere e non può esistere che chi presenzia a questo momento, se vogliamo intimo,rappresenti più un ostacolo che un’opportunità o un aiuto.

A questo non ero preparato ed in un moto di umano egoismo, non avrei voluto essere lì a ruoli scambiati per nessun motivo al mondo: lo capivo, capivo la sua situazione!

Cosa potevo fare?

Almeno se fossimo stati in albergue!

Essere in tanti avrebbe voluto dire essere nessuno,ma in questo caso era molto diverso: due attori sullo stesso palcoscenico ad interpretare due ruoli incompatibili fra loro e contemporaneamente, due spettatori spaesati che vorrebbero entrambi essere altrove!

Tutti noi pellegrini che camminiamo assieme, siamo per lo più compagni occasionali che per pura coincidenza fanno la stessa strada. Qualcosa fa si che ogni tanto, per degli eventi spesso fortuiti, ci troviamo a condividere molto più di ciò che sarebbe consentito in termini di privacy: è un rischio che corriamo, ma non ci pensiamo mai fino a che non ci troviamo a viverlo davvero!

Due estranei in navigazione a bordo di una nave che dovrebbe condurre ad un porto sicuro chiamato Santiago, e che improvvisamente diventa una zattera.

Uniti dallo stesso intento e dalla stessa passione per il Cammino: si, ma a patto di navigare su un’imbarcazione stabile e non su una bagnarola in balìa dei venti!

Uniti da amicizia sincera finchè tutto è nei parametri stabiliti.

La zattera non è mai contemplata!

Armonia destabilizzata probabilmente da un cibo avariato consumato la sera prima o dal freddo pungente che, nel tratto che separa il ristorante dall’hostal, provocherà un blocco della digestione ad uno di loro.

Sincero quanto ingiustificato (ma comprensibile) imbarazzo per aver mostrato un aspetto del suo essere umana che non era previsto, che non sarebbe dovuto accadere.

Sul far del mattino ritiene di stare meglio,ma non se la sente di camminare: le consiglio di riposarsi per tutto il giorno e prendersi un tempo per rimettersi in forze prima di riprendere il Viaggio e magari incontrarsi di nuovo più avanti.

Anche lei ritiene che sia la cosa giusta da fare, poi finalmente passato il malessere, cade in un sonno profondo.

Come quella sera a Bilbao nei confronti della “Crazy Family”, la stessa certezza: il Viaggio con Maile è giunto al suo epilogo.

Seguiranno gli immancabili chili di foto e messaggi su wassap: ciao Tigre, Buon Cammino e buona Vita!

Mi rimangono le risa, la clara con limon a fine tappa,il rito dei cristalli deposti lungo il percorso ed un lapislazzulo che mi ha regalato e che per un po’ ho portato al collo.

Soprattutto mi resta la spiegazione che mi ha aperto un mondo, sulla differenza che intercorre tra Dolore e Sofferenza, le “lezioni di consapevolezza”, la strada da percorrere per capire chi sono diventato, non attraverso i miei sbagli e non attraverso le mie ferite, ma cercando di far leva su ciò che riesco a trovare di ancora intatto nel cumulo di macerie:

“Non sono solo c'è qualcuno proprio come me,

pugni chiusi, trappole, pronto per esplodere,

la mia generazione odia le frasi retoriche,

è solo la nostra storia scritta in parole povere

quindi tutti zitti, devo dire una cosa,

tutti zitti, devo dire una cosa,

tutti zitti, devo dire una cosa:

qua stanno piovendo vetri e siamo fermi in posa”.

(Lowlow, “Il Sentiero dei nidi di ragno”)



Raccolgo le mie cose e, attorno alle sette cercando di non fare rumore, mi chiudo la porta alle spalle: fuori piove, fa freddo e piove,ma ormai sono talmente abituato a questo tempaccio, che non me ne curo neanche troppo.

Il raffreddore non va ne’ avanti ne’ indietro, per il resto mi pare che sia tutto nella norma: tiro fuori il mio nuovo abbigliamento da pioggia e trovo che sia perfetto: nel silenzio del primo mattino, mi allontano da Comillas.

Mi trovo a percorrere un bel viale con un largo marciapiede, attraverso un percorso caratterizzato da ponti sotto ai quali dovrebbe scorrere un fiume che però è abbastanza in secca,di tanto in tanto appare un bello scorcio di mare ed oggi, come sempre più spesso mi accade, non ho alcuna intenzione di salire e scendere attraverso campetti,tratturi e trattori: questa pioggia insistente deve aver creato un bel pantano, quindi decido di proseguire sulla strada asfaltata.

Sarà una scelta poco felice, perché il tratto che sto percorrendo è davvero noioso, uguale a se stesso,con i pascoli ed i campi incolti, qualche casale isolato.

Quattro sono le cose buone da segnalare: la prima è che sto scorciando parecchio rispetto al tracciato ufficiale, la seconda è che nel frattempo il cielo si è aperto ed è uscito un po’ di sole seppur in convalescenza, la terza è che le vette innevate del Pico de Europa alla mia sinistra sono uno spettacolo bellissimo, la quarta è che strada facendo, buttando un’occhio dentro ad un hostal (non ricordo il nome del villaggio che stavo attraversando) noto in bella mostra una vieira sopra ad un mobile antico: senza pensarci due volte, entro.

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Mi accoglie una signora molto premurosa, quasi materna (la proprietaria) ed alla mia domanda “se ci fosse la possibilità di fare colazione”, mi invita a sedermi e mi porta un giornale mentre aspetto di mangiare. Mentre lei “pensa a tutto”!

Mi butto nella pagina dello sport: durante il Cammino non leggo mai le notizie del mondo, di politica e di miseria umana. Per principio: se il Cammino dev’essere “stacco” dalle cose di tutti i giorni, lo deve essere in tutto e per tutto!

Al Calcio no, a quello non posso rinunciare!

Sarà una colazione ricchissima con tostadas, marmellate fatte in casa, biscotti,cioccolata, frutta, e tanta attenzione per questo vecchio pellegrino “fuori strada” ed anche un po’ fuori di testa.

Ignorare le frecce gialle che ti invitano a salite impossibili o discese rompicollo,ha molti, ma molti vantaggi.

Esco che sono “nuovo di zecca” e, dopo la consueta pausa sigaretta, riprendo il mio Viaggio.

La strada scende e mi riporta verso il mare, nel paese di San Vicente con le barchette arenate nella secca del mare.

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Attraverso il ponte (mi dispiaccio che il Cammino non preveda di attraversare questa bella cittadina) per poi affrontare un’ascesa che mi porterà ancora in aperta campagna, arrampicandomi lungo una salitaccia che si chiama “Calle Santiago”, forse non a caso.

Attraverserò un viadotto sull’autostrada ed ancora campagna: le frecce del Cammino che si confondono coi simboli che portano al Santuario di Covadonga; attraverso paesi poco più grandi di un presepe: Serdio, Pesùes, villaggi minuscoli incastonati nella collina con un traffico di mezzi agricoli superiore ad ogni aspettativa e poi ancora asfalto, asfalto e superstrada fino ad Unqueras.

Il sole adesso comincia a picchiare duro (questo tempo è matto ed imprevedibile!), mentre passo il ponte che divide Cantabria ed Asturia ed attacco l’ultima salita, quella che mi porta a Colombres, dove finirà la mia tappa.

Colombres e le sue case color pastello (il blu cobalto ed il fucsia acceso su tutti) ed i balconi tipici delle case sudamericane.

Venezuela, Colombia,Mexico … tracce di emigranti ritornati a casa dopo una vita di lavoro, con un gruzzoletto in tasca e la nostalgia nel cuore, che il Sudamerica quando ti entra dentro non ti lascia più: parola di Giovane Marmotta.

Saudàde: mi trovo a pensare al “mio” Brasile, quello che spesso mi sogno di notte.

Un sogno sempre uguale a se stesso: io che spicco il volo con un salto e mi libro nell’aria come un uccello: quando il sogno parte con questa scena, già so come va a finire: è matematico!

Mi ritrovo immancabilmente in Brasile, su una spiaggia deserta, in una strada tortuosa a Salvador de Bahia o in un budello incasinato “da Rocinha”; su un vialone trafficato a Sao Paulo, in un giardino tropicale a Gaviao o perfino nell’ufficio postale di una località che non so definire. C’è sempre il sole.

E sto bene!

I miei amici, “la mia gente”: l’ultima volta che ho visto “per davvero” Luàna, la figlia di Miguel e Bia (della quale sono padrino di battesimo) aveva sei anni, mentre l’ultima volta che l’ho sognata, le scostavo i capelli dalla fronte in un gesto di affetto, ed alla base, sulla cute … le ho visto la ricrescita bianca sotto alla chioma corvina.

Non c’è più posto in Brasile per me, non c’è più posto a Colombres per il pellegrino: niente albergue e un paio di hostales pieni “a tappo”.

Il cameriere di un ristorante, seduto fuori a fumare dopo aver compiuto il suo lavoro, telefonerà per me (mi ricorda il proprietario di pensiòn a Portugalete) fino a trovarmi una sistemazione per la notte.

Giù al Peral … saranno un paio di chilometri,forse meno … sulla statale all’imbocco dell’autostrada. Di solito ci si fermano i camionisti, si mangia bene e si spende poco.

Grazie, amico mio!

Sarò ben alloggiato e ben trattato.

La pioggia di stamattina è solo un ricordo ed il sole è così caldo che mi asciuga il bucato in un quarto d’ora.

Stasera mangerò benissimo ed assaggerò con piacere le “corbatas”, un dolce di pasta sfoglia tipico di queste zone.

Telefono a Maile per assicurarmi che stia bene.

Domani camminerà fino a San Vicente: solo una decina di chilometri perché non si sa mai come possa reagire il fisico dopo una batosta come quella.

Mi godo il sole ed una caña alla sua salute, qui, in mezzo ad un nulla che io dipingerò con i colori che preferisco.

Con questa gente mezzo sudamericana.

Gente cortese ed allegra, sole, cibo a volontà e chiacchiere con chiunque passi e si fermi.

Il mio personale angolo di Brasile: Luàna non può avere la ricrescita bianca nei capelli … adesso dovrebbe avere si e no quattordici anni …

… chiudo gli occhi … e spicco di nuovo il volo.
 
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